Dopo che la fragilità dell’attuale assetto di governo ha finito per rivelarsi insormontabile, cioè grossomodo dopo appena cento giorni dal secondo ingresso di Romano Prodi a Palazzo Chigi, la prima e più impellente cura del vertice diessino è stata quella di trasformare con assoluta certezza la costituzione del Partito Democratico nella “quarta tappa” del percorso PCI-Pds-Ds. Un obiettivo in aperto conflitto con i piani dell’entourage prodiano, da sempre impegnato a ratificare il compromesso storico cattocomunista del terzo millennio. Ma talmente cruciale da essere stato perseguito sin qui con uno sprezzo del voltafaccia da sfiorare la spregiudicatezza tattica propriamente detta. Prima sembrava che i fassiniani, tramite Giuliano Amato, volessero dialogare con Forza Italia e Alleanza Nazionale in vista di una convenzione bicamerale per la discussione di un sistema elettorale condiviso. Poi, allorché la prognosi infausta del Prodi-bis e il profilarsi del referendum ‘Guzzetta’ all’orizzonte hanno reso materialmente impraticabile quell’ipotesi, al Botteghino si sono ravveduti e hanno sposato il sistema proporzionale alla tedesca, l’unico in grado di contare sul sostegno della vastissima lobby trasversale dei nostalgici della Prima Repubblica. Una soluzione in grado di favorire l’avvento di alleanze “di nuovo conio” tra i democratici e l’Udc casiniana, tra l’altro.
Solo che contro questo secondo disegno si è mosso con inaspettato machiavellismo Walter Veltroni in persona, prendendo pubblicamente posizione a sfavore di qualsiasi progetto neoproporzionalista. Per cui, calendario alla mano, il sindaco di Roma punta dritto verso il referendum bipartitico, ben sapendo che nella maggioranza tale prospettiva innescherebbe un cupio dissolvi capace (forse) di assestare il colpo di grazia all’esecutivo. E Prodi, con gli uomini del suo pretoriano – Arturo Parisi in testa – stretti a coorte sul fronte filoreferendario, non può certo schierarsi a favore dell’unica ipotesi che allungherebbe la sua vita di uomo politico: così facendo, il presidente del Consiglio perderebbe infatti l’appoggio dei suoi collaboratori più fidati.
In un solo colpo da maestro, il futuro segretario del Pd riesce ad accelerare l’eutanasia di un governo la cui crescente impopolarità rischia di compromettere le magnifiche sorti della “nuova stagione” veltroniana e a garantire il predominio diessino sul nuovo soggetto politico. Con un Prodi ferito a morte, nemmeno la costituente più democristiana di questo mondo sarebbe in grado di respingere l’opa postcomunista sul nascituro contenitore democrat.
Eppure anche in questo caso la scaltrezza del tattico dà l’impressione di occultare la pochezza dello stratega. Gli agiografi e i topi di biblioteca si sdilinquiscono per le effimere astuzie dei Rommel, ma le guerre si vincono con la solidità dei Montgomery.
Se Veltroni gioca la carta delle convergenze parallele con la ex sinistra Dc, non fa che riprodurre lo schema consociativo responsabile della semaforica immobilità prodiana. I morotei da sempre triangolano con la sinistra antagonista, mentre i dorotei fanno da sponda alla sinistra riformista. Parliamo di un’evidenza storica che ha precisi riflessi sul piano della cultura politica: legandosi al cattolicesimo sociale di Parisi, per “W” sfuma la possibilità di arrangiare l’identità democratica in chiave liberalcentrista aprendo a Casini.
Premesse non proprio incoraggianti, per una leadership che i trombettieri di regime dipingono da mane a sera come “rivoluzionaria” e “liberista” laddove a Veltroni, oltre al viatico di una vera battaglia di idee per l’investitura a segretario, mancano perfino i compagni di rupture.
Solo che contro questo secondo disegno si è mosso con inaspettato machiavellismo Walter Veltroni in persona, prendendo pubblicamente posizione a sfavore di qualsiasi progetto neoproporzionalista. Per cui, calendario alla mano, il sindaco di Roma punta dritto verso il referendum bipartitico, ben sapendo che nella maggioranza tale prospettiva innescherebbe un cupio dissolvi capace (forse) di assestare il colpo di grazia all’esecutivo. E Prodi, con gli uomini del suo pretoriano – Arturo Parisi in testa – stretti a coorte sul fronte filoreferendario, non può certo schierarsi a favore dell’unica ipotesi che allungherebbe la sua vita di uomo politico: così facendo, il presidente del Consiglio perderebbe infatti l’appoggio dei suoi collaboratori più fidati.
In un solo colpo da maestro, il futuro segretario del Pd riesce ad accelerare l’eutanasia di un governo la cui crescente impopolarità rischia di compromettere le magnifiche sorti della “nuova stagione” veltroniana e a garantire il predominio diessino sul nuovo soggetto politico. Con un Prodi ferito a morte, nemmeno la costituente più democristiana di questo mondo sarebbe in grado di respingere l’opa postcomunista sul nascituro contenitore democrat.
Eppure anche in questo caso la scaltrezza del tattico dà l’impressione di occultare la pochezza dello stratega. Gli agiografi e i topi di biblioteca si sdilinquiscono per le effimere astuzie dei Rommel, ma le guerre si vincono con la solidità dei Montgomery.
Se Veltroni gioca la carta delle convergenze parallele con la ex sinistra Dc, non fa che riprodurre lo schema consociativo responsabile della semaforica immobilità prodiana. I morotei da sempre triangolano con la sinistra antagonista, mentre i dorotei fanno da sponda alla sinistra riformista. Parliamo di un’evidenza storica che ha precisi riflessi sul piano della cultura politica: legandosi al cattolicesimo sociale di Parisi, per “W” sfuma la possibilità di arrangiare l’identità democratica in chiave liberalcentrista aprendo a Casini.
Premesse non proprio incoraggianti, per una leadership che i trombettieri di regime dipingono da mane a sera come “rivoluzionaria” e “liberista” laddove a Veltroni, oltre al viatico di una vera battaglia di idee per l’investitura a segretario, mancano perfino i compagni di rupture.
Ismael
1 commenti:
Bellissimo articolo, perfetto anche nella lunghezza. Complimenti!
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