In margine alla crisi economica di questi giorni, i sovraeccitati turiferari dello statalismo hanno finalmente potuto esternare senza remore tutta la loro sfiducia nei riguardi del libero mercato. Secondo il peculiare metro interpretativo di costoro, infatti, i nodi del “liberismo” sarebbero venuti al pettine con il crepuscolo degli dei dell’alta finanza globale.
Intervistato dal TG5, Marco Tronchetti Provera ha preconizzato la “fine di un modello” e l’inizio di uno nuovo (dalle modalità funzionali non meglio specificate). Gongolante di fianco a un Della Vedova in evidente imbarazzo, a Omnibus il rifondarolo Alfonso Gianni ha lanciato i suoi strali contro Wal-Mart, multinazionale colpevole di non fare concretamente “un tubo” benché costituisca, per colmo di tracotanza padronale, la prima impresa americana quanto a fatturato. Vittorio Zucconi già pregusta l’idillio della nuova America obamiana e spara a zero sui guasti prodotti dal “fondamentalismo liberista e neoconservatore”.
Mistificazioni che sicuramente non stupiscono: le crisi offrono agli uomini di potere e agli intellettuali loro consiglieri eccellenti pretesti per ampliare il raggio d’influenza delle politiche pubbliche – ossia proprio delle vere responsabili dei crolli bancari e borsistici registrati durante l’ultima luna, come mi accingo a spiegare. Comunque alcune delle vittime di questo indiscriminato massacro mediatico gridano vendetta. Prime tra tutte la verità storica e la realtà dei fatti odierni: Zucconi allude al bilancio federale americano “sfasciato” da Reagan, aggiustato da Bush padre al caro prezzo della mancata rielezione e infine traghettato da Clinton verso straordinarie performances economiche temperate/favorite dal welfarismo democratico. Note a latere di un editoriale sorretto da un’accesa vena di antimercatismo strafottente, beninteso: come giudicare altrimenti il dissenso dallo sfrontato infantilismo di chi invoca “come terapia per la sregolatezza, ancora più sregolatezza, più benzina per spegnere le fiamme”?
Tanto per non limitarsi a sbuffare dinnanzi all’indomita reiterazione di luoghi comuni mille volte smentiti e mille volte ripetuti, a Zucconi occorrerà ricordare che Ronald Reagan ereditò un disavanzo pari al 2,7% del pil e ne lasciò uno al 2,9%. Nel frattempo, in parallelo a questo rimarchevole deterioramento di cassa, l’aliquota marginale passava dal 70 al 28%, l’imposta sul reddito arrivava a fruttare 1253 miliardi di dollari (si partiva dai 517 del 1980) e per l’inflazione si tornava ad adoperare un’unica cifra numerica [fonte]. Nel ’92, inoltre, Bush padre non perse a causa della sua propensione al pareggio di bilancio, ma perché volle soddisfarla aumentando le tasse, in disaccordo con quanto enfaticamente promesso in campagna elettorale. L’unico tentativo clintoniano di imprimere una svolta progressista alla politica economica statunitense – con il piano di nazionalizzazione del sistema sanitario – sortì poi solamente l’effetto di consegnare al GOP la maggioranza parlamentare e di costringere quindi la presidenza democratica a un “governo di coabitazione” con la Destra repubblicana. Se Zucconi intende il conservatorismo fiscale come l’enunciazione di principio del “deficit spending” strutturale, cade in un equivoco: talora succede che la realpolitik imponga di tacitare il malcontento fomentato dai sindacati e/o dalla facile demagogia (non solo di Sinistra, purtroppo) contravvenendo per periodi di tempo più o meno prolungati al rigore contabile, ma la dottrina dello Stato minimo continua a dire altro. E cioè che nei periodi “cattivi” si devono tagliare le tasse, mentre in quelli “buoni” si devono diminuire le spese.
Sui criteri di giudizio impiegati dall’americanista di Rep. per dare conto dello scoppio della bolla speculativa, infine, non credo valga la pena di dilungarsi ulteriormente. Se in seguito a un’espansione creditizia provocata dalle banche centrali (istituzioni tutt’altro che benvolute dai “fondamentalisti” del liberismo) e dalla connivenza tra il potere politico bipartisan e i giganti parastatali del credito immobiliare un analista deduce l’immancabile, ossimorico “fallimento del mercato”, le sue coordinate valutative devono presentare lacune troppo profonde per essere colmate da un blogger qualunque.
Ma sono ben altri i frutti perversi che questa sbornia fisiocratica e positivista sta facendo sbocciare. Dalle parole di Alfonso Gianni, peraltro assolutamente sottoscrivibili dall’ultimo Tremonti-pensiero, emerge una concezione settecentesca della ricchezza, per cui è la produzione dei beni – giammai la loro distribuzione – il momento del “vero” e legittimo profitto. Come se il tempo di diffusione e i relativi beni capitali non aggiungessero valore a quello di realizzo; come se il valore medesimo, in questo mondo di enti condizionati e imperfetti, potesse quantificarsi in via “oggettiva” e non – ahilui – “solo” marginale; come se le categorie dello spirito fossero oppio per popolani, “dietro” al quale allignano unicamente cause materiali. Manca poco che ci si rimetta a dibattere sulla liceità del prestito a interesse.
Il peggio è che il positivismo economico, postulando l’immanenza dello scambio a “leggi di natura” valide anche per ogni altro ambito fenomenico, dopo aver ridotto il mercato al suo solo sostrato fisico ha gioco facile nel fare uso di strumenti concettuali deterministici, con cui armonizzare il “mondo catallattico” al suo presunto ordine intrinseco. Di qui il collante teorico della prassi interventista, basata sull’accelerazione delle dinamiche sociali verso i fini dedotti dalla comprensione squisitamente quantitativa dei processi economici che le definiscono.
Quant’è ironico che sia il semplicismo di tanti libertari, anarcocapitalisti o minarchici nel predicare il sistema di mercato come ordine morale in sé a fornire al positivismo i migliori argomenti per contrattaccare ogniqualvolta il “sistema”, com’è inevitabile, si dimostra casomai conseguenza di un “ordine” fissato a priori.
Intervistato dal TG5, Marco Tronchetti Provera ha preconizzato la “fine di un modello” e l’inizio di uno nuovo (dalle modalità funzionali non meglio specificate). Gongolante di fianco a un Della Vedova in evidente imbarazzo, a Omnibus il rifondarolo Alfonso Gianni ha lanciato i suoi strali contro Wal-Mart, multinazionale colpevole di non fare concretamente “un tubo” benché costituisca, per colmo di tracotanza padronale, la prima impresa americana quanto a fatturato. Vittorio Zucconi già pregusta l’idillio della nuova America obamiana e spara a zero sui guasti prodotti dal “fondamentalismo liberista e neoconservatore”.
Mistificazioni che sicuramente non stupiscono: le crisi offrono agli uomini di potere e agli intellettuali loro consiglieri eccellenti pretesti per ampliare il raggio d’influenza delle politiche pubbliche – ossia proprio delle vere responsabili dei crolli bancari e borsistici registrati durante l’ultima luna, come mi accingo a spiegare. Comunque alcune delle vittime di questo indiscriminato massacro mediatico gridano vendetta. Prime tra tutte la verità storica e la realtà dei fatti odierni: Zucconi allude al bilancio federale americano “sfasciato” da Reagan, aggiustato da Bush padre al caro prezzo della mancata rielezione e infine traghettato da Clinton verso straordinarie performances economiche temperate/favorite dal welfarismo democratico. Note a latere di un editoriale sorretto da un’accesa vena di antimercatismo strafottente, beninteso: come giudicare altrimenti il dissenso dallo sfrontato infantilismo di chi invoca “come terapia per la sregolatezza, ancora più sregolatezza, più benzina per spegnere le fiamme”?
Tanto per non limitarsi a sbuffare dinnanzi all’indomita reiterazione di luoghi comuni mille volte smentiti e mille volte ripetuti, a Zucconi occorrerà ricordare che Ronald Reagan ereditò un disavanzo pari al 2,7% del pil e ne lasciò uno al 2,9%. Nel frattempo, in parallelo a questo rimarchevole deterioramento di cassa, l’aliquota marginale passava dal 70 al 28%, l’imposta sul reddito arrivava a fruttare 1253 miliardi di dollari (si partiva dai 517 del 1980) e per l’inflazione si tornava ad adoperare un’unica cifra numerica [fonte]. Nel ’92, inoltre, Bush padre non perse a causa della sua propensione al pareggio di bilancio, ma perché volle soddisfarla aumentando le tasse, in disaccordo con quanto enfaticamente promesso in campagna elettorale. L’unico tentativo clintoniano di imprimere una svolta progressista alla politica economica statunitense – con il piano di nazionalizzazione del sistema sanitario – sortì poi solamente l’effetto di consegnare al GOP la maggioranza parlamentare e di costringere quindi la presidenza democratica a un “governo di coabitazione” con la Destra repubblicana. Se Zucconi intende il conservatorismo fiscale come l’enunciazione di principio del “deficit spending” strutturale, cade in un equivoco: talora succede che la realpolitik imponga di tacitare il malcontento fomentato dai sindacati e/o dalla facile demagogia (non solo di Sinistra, purtroppo) contravvenendo per periodi di tempo più o meno prolungati al rigore contabile, ma la dottrina dello Stato minimo continua a dire altro. E cioè che nei periodi “cattivi” si devono tagliare le tasse, mentre in quelli “buoni” si devono diminuire le spese.
Sui criteri di giudizio impiegati dall’americanista di Rep. per dare conto dello scoppio della bolla speculativa, infine, non credo valga la pena di dilungarsi ulteriormente. Se in seguito a un’espansione creditizia provocata dalle banche centrali (istituzioni tutt’altro che benvolute dai “fondamentalisti” del liberismo) e dalla connivenza tra il potere politico bipartisan e i giganti parastatali del credito immobiliare un analista deduce l’immancabile, ossimorico “fallimento del mercato”, le sue coordinate valutative devono presentare lacune troppo profonde per essere colmate da un blogger qualunque.
Ma sono ben altri i frutti perversi che questa sbornia fisiocratica e positivista sta facendo sbocciare. Dalle parole di Alfonso Gianni, peraltro assolutamente sottoscrivibili dall’ultimo Tremonti-pensiero, emerge una concezione settecentesca della ricchezza, per cui è la produzione dei beni – giammai la loro distribuzione – il momento del “vero” e legittimo profitto. Come se il tempo di diffusione e i relativi beni capitali non aggiungessero valore a quello di realizzo; come se il valore medesimo, in questo mondo di enti condizionati e imperfetti, potesse quantificarsi in via “oggettiva” e non – ahilui – “solo” marginale; come se le categorie dello spirito fossero oppio per popolani, “dietro” al quale allignano unicamente cause materiali. Manca poco che ci si rimetta a dibattere sulla liceità del prestito a interesse.
Il peggio è che il positivismo economico, postulando l’immanenza dello scambio a “leggi di natura” valide anche per ogni altro ambito fenomenico, dopo aver ridotto il mercato al suo solo sostrato fisico ha gioco facile nel fare uso di strumenti concettuali deterministici, con cui armonizzare il “mondo catallattico” al suo presunto ordine intrinseco. Di qui il collante teorico della prassi interventista, basata sull’accelerazione delle dinamiche sociali verso i fini dedotti dalla comprensione squisitamente quantitativa dei processi economici che le definiscono.
Quant’è ironico che sia il semplicismo di tanti libertari, anarcocapitalisti o minarchici nel predicare il sistema di mercato come ordine morale in sé a fornire al positivismo i migliori argomenti per contrattaccare ogniqualvolta il “sistema”, com’è inevitabile, si dimostra casomai conseguenza di un “ordine” fissato a priori.
8 commenti:
E sì! Sono proprio gli incauti difensori del "capitalismo" e del "liberismo" a fornire comodi assists retorici al nemico. Pure il di solito lucido Ostellino qualche settimana è caduto miseramente nella trappola parlando di "meccanismo". A tal riguardo scrissi (commento riciclato per la terza volta):
"Il libero mercato non è un'ideologia e va bene. Ma anche la parola "meccanismo" è infelicissima. Così come la strana idea di limitare il tutto agli ultimi duecento anni, invece di ricondurlo almeno alla "fondamentale" "azione umana" del razionalista Mises, se non proprio alle teorie giusnaturalistiche. Cosicché alla fine, volendo difendere quell'ismo chiamato capitalismo, si conficca ancor di più nella testa dell'opinione pubblica l'idea perniciosa del "capitalismo" come sistema fra i vari sistemi, di meccanismo fra i vari meccanismi, di artificio fra i vari artifici. Buono, questa volta, ma fatto nella sua astrattezza ad immagine e somiglianza del comunismo: perché infatti il "capitalismo" è un concetto marxista, il più duro a morire."
Sottoscrivo l'analisi, anche se discordo sulla sovrapposizione tra Gianni e Tremonti - come sai passo di qua solo per difendere l'uomo della Valtellina, tanto sul resto concordo con te ;).
Il Gianni gongola perche' si "beve" le analisi farlocche che tu giustamente stigmatizzi e dopo un paio di lustri di sberle morali, non si sente piu' un coglione nell'intimo a sostenere "Marx aveva ragione".
Il punto del secondo invece e' affatto diverso: come sai e' sempre stato critico sulla VELOCITA' di apertura dei mercati (finanziari e non) a player che di liberale hanno oggettivamente poco, piu' che sulla opportunita' di farlo.
Da cui l'enfasi sul "temperare" lo stravolgimento del capitalismo da parte di chi accumuli vantaggi di posizione che sballano il sistema, che alla fine forniscono al "nemico" assist formidabili come specifica Zamax.
Nessun individualista puo' ritenere che siamo tutti uguali, ne' sottostimare l'attivita' dei "furbi" o credere che la bonta' intrinseca delle "Regole" sia sufficiente per tutelare i piu'. Nessun liberista puo' affidarsi all'ideologia al posto del pragmatismo.
Il punto vero e' a chi sta il "controllo": a delle "Authority" asessuate o alla "politica"?
Nel primo caso si produce il disastro odierno: e' un neopositivismo, una finta fede nel "meccanismo" spinta dai fautori del liberismo di sinistra alla Alesina-Giavazzi, che di fatto intende "menostato" come "piu' metastato": authority, banche centrali, buro-brussellese. Secondo i dettami del Prodismo, ultima teorizzazione debole del socialismo a corto di idee.
ciao, Abr
Zamax:
L'ennesimo caso di telepatia. Pensa che ho stralciato dal post proprio un riferimento al bell'articolo di Ostellino nel quale la difensa del libero mercato era imperniata sul fatto che "Il capitalismo e il mercato rimangono il «modo» migliore per produrre (e consumare) ricchezza".
Una persona su dieci è, in senso lato e assai litigabile, "liberale". Di queste, tre su quattro sono friedmaniane - nel senso di Friedman padre ma soprattutto figlio, convinte cioè che il lasseiz-faire faccia meccanicamente convergere i processi sociali verso un idillio liberoscambista privo di fondamenta etiche. A me viene in mente l'aquila kantiana, che sogna di liberarsi dell'aria che la regge in volo. In realtà solo dire che i rapporti devono limitarsi al libero scambio (sempre ponendoci nel classico iperuranio libertario) significa porre un'enorme restrizione all'universo delle possibili relazioni umane, o sbaglio?
D'accordissimo poi sul tuo commento "riciclato", che avevo letto già in originale!
Abr:
Intanto complimenti per il cappello introduttivo al tuo ultimo articolo su Giornalettismo, che fa schiatare dal ridere (il cappello, non l'articolo)! Te li avrei fatti direttamente "sul posto", se solo il mio penoso browser non saltasse in aria ogni volta che apro Nequidnimis...
As for the rest: essendo "di casa", ritengo di avere tutto il diritto di criticare i personaggi politici che continuo a mandare al potere come un bue (e mi piego al "tanto peggio tanto meglio" sempre più di malavoglia, ti dirò).
Il problema di Tremonti non è nemmeno il suo pragmatismo: capisco e accetto di buon grado che le figure apicali debbano operare una sintesi delle istanze che rappresentano. Quello che mi infastidisce di lui è l'ambiguità travestita da buonsenso. Dice: mercato quando è possibile, Stato quando è necessario. Bello, sembrerebbe il trionfo della ragionevolezza. Solo che è un motto adattabile a qualunque tornaconto e a qualsiasi contesto a seconda delle convenienze del momento. Quand'è che il "possibile" cede il passo al "necessario"? Esiste un criterio oggettivo, o perlomeno Tremonti ha saputo enunciarne uno a cui far riferimento pensando a lui?
Se sì, perché non appaltarne l'amministrazione ad authority pro tempore?
Se no, di cosa parliamo se non, ancora e sempre, della "zona morta" che circonda ogni modello interpretativo della realtà, a maggior ragione di quelli carichi di preconcetti deterministici?
Ecco, è su questo punto che vorrei sentire ragionamenti e non proclami da parte del politico forse più importante in Italia oggi.
Quello che mi sembra incredibile è che quel tipo di argomenti per difendere il capitalismo siano egemoni anche qui in Italia, dove abbiamo una tradizione Cattolica.
Qualcuno nella blogosfera si ostina a scrivere che i cattolici con il capitalismo non c'entrano nulla, ma a me sembra vero il contrario.
Ecco un autorevole spunto
Nella sezione "libros" selezionate "Scuola Austriaca" e poi andate al cap. III
IL Tremonti che critica la "velocità" nell'apertura dei mercati mi sembra in malafede, faccio l'esempio dell'eliminazione delle quote e dei dazi sulle importazioni di prodotti tessili da paesi in via di sviluppo.
Questa è avvenuta in base ad un accordo internazionale del 1994 ed è avvenuta gradualmente nel giro di ben 10 anni, nei quali i politici come Tremonti non hanno fatto assolutamente niente, svegliarsi adesso che grazie alle importazioni cinesi l'industria tessile italiana è allo sfascio mi sembra poco serio.
Cosa si intendeva per velocità, protezionismo ad oltranza per i prossimi 3 secoli?
Ecco, adesso leggo che Berlusconi vorrebbe gli aiuti di Stato per la FIAT. Molto originale, e molto liberale.
E noi che abbiamo votato a destra proprio perchè ci facevano schifo queste porcate che credevamo prerogativa della sinistra...
Mi permetto di segnalarvi le mie idee circa il fatto che la crisi in corso possa e debba essere vista come una occasione di rinnovamento per l'Italia.
http://www.partitoliberale.it/2008/12/18/la-crisi-economica-come-opportunita-di-rinnovamento-di-stefano-maffei-seg-provinciale-di-modena/
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