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di Ismael “Puoi avere un Signore, puoi avere un re, ma l’uomo di cui aver paura è l’esattore delle imposte” Charles AdamsCon questo breve ma intenso pamphlet, il direttore di Libero Mercato redige la summa di oltre un decennio di attività pubblicistica a sostegno dell’emancipazione fiscale e della libertà d’intrapresa. Già in fase introduttiva, l’autore provvede a sintetizzare l’assioma fondante del liberalismo «classico», o liberalesimo, da cui discende il nucleo teorico essenziale dell’individualismo metodologico: “Chi presenta i quaranta milioni di denunce dei redditi deve essere in condizione – se lo vuole – di reimpadronirsi dei fondamenti di una sana nozione del limite invalicabile di ciò che lo Stato può chiedere all’individuo, alla persona, alla famiglia e all’impresa: si tratta di cardini che [...] pre-esistono allo Stato come ad ogni potere pubblico, figlio evolutivo dei diversi modelli di ordinamento giuridico radicatisi nel mondo”. Non si scappa, dunque: la titolarità individuale del diritto alla libertà e alla proprietà privata – che si lega con quello alla vita in un trinomio inscindibile – deve precedere la costituzione dell’autorità, per poter aspirare a farsi fulcro di sistemi politici coerentemente basati sull’autodeterminazione del singolo. Viceversa, se si stabilisce che la sorgente del diritto è l’officina normativa dello Stato, sarà quest’ultimo a stabilire quali richieste l’individuo possa legittimamente avanzare dinnanzi al potere sovrano.
Munito di simili premesse teoriche, Giannino parte lancia in resta contro lo statalismo in generale e il prodismo in particolare. Nel primo capitolo, per esempio, si sottolinea che “Decisi tagli alle tasse non solo fanno crescere nel breve chi li pratica concentrati nel tempo [...], ma nel medio-lungo periodo ampliano anche la platea fiscale e fanno emergere imponibile nascosto”, che “le alte tasse che gravano su noi italiani ed europei serv[o]no solo a far lavorare di meno la gente, con effetti di riduzione del reddito disponibile maggiormente gravi proprio per chi ha le qualifiche più basse” e che “con aliquote più basse i ricchi pagano di più e i poveri meno”. Tesi supportate da un’attenta ricognizione storica delle entrate in Paesi come gli USA della sfida reaganiana e l’Irlanda anni ’90, ma anche dalle ricerche del premio Nobel Edward C. Prescott. E sicuramente invise ai dimissionari Visco e Padoa-Schioppa i quali, innalzando il floscio stendardo della lotta all’evasione, hanno dichiarato una guerra neokeynesiana a coloro che dispongono di redditi diversi da quelli lavorativi. Rischiando di provocare un dissesto finanziario con il ventilato rialzo al 20% della cedolare secca sulle famigerate “rendite finanziarie”, che con le perdite di Borsa registrate di recente avrebbe potuto aggravare le imposte negative da applicare alle minusvalenze. Ma anche finendo per esercitare una deterrenza inintenzionale sui doppi (o magari tripli) lavori fisco-esenti o fisco-mascherati svolti da quei lavoratori dipendenti che, da sempre, costituiscono il blocco sociale di riferimento della sinistra. Nonché riscuotendo maggiori imposte accertate per un totale di 13,115 miliardi di Euro nel 2006 contro i 13,897 dell’anno precedente, interamente gestito dal vituperato Giulio Tremonti. Questi “era evidentemente più efficiente, se con meno controlli – che costano al contribuente, ricordiamocelo bene – accertava maggior evasione”, scrive giustamente Giannino.
I classici argomenti della pubblicistica liberista, com’è noto, prestano il fianco a misinterpretazioni utilitaristiche di vario genere, le più comuni delle quali sono ben rappresentate dei contorni ideologici del cosiddetto giavazzismo. Edotti della mirabolante efficienza economica garantita dal libero mercato, in altre parole, si può essere portati a ritenere che il liberismo sia giusto perché funziona. Cadendo nel tranello retorico che è la cifra universale del consequenzialismo, laddove passi inosservata la discrezionalità implicita in quel “funziona”. Guai a dimenticare che una determinata azione (politica) “funziona” nella misura in cui giova agli scopi (sociali) di chi la compie, illudendosi magari di poter trovare (nel mercato) una macchina decisionale eticamente neutra. Oscar Giannino ha ben presente la possibilità di declinare il liberismo in senso “offertista” oppure “redistributivo”, che rispecchia due diversi utilizzi del medesimo strumento, ma pecca di superficialità allorché ritiene di individuare nell’«affamare la bestia» e nella flat tax due facili panacee per l’equanime gestione di riforme antistataliste. Affermare l’esistenza di una correlazione diretta tra l’abbattimento delle imposte e la diminuzione della spesa pubblica espone a madornali eterogenesi dei fini, se nel contempo si magnifica l’incremento di gettito conseguibile tramite il taglio delle aliquote. Nel medio-lungo termine – e a maggior ragione se nel frattempo il gioco dell’alternanza politica ha messo in sella il demagogo di turno – la sospirata moderazione tributaria può generare le risorse per nuovi assistenzialismi (Christina e David Romer analizzano diffusamente la questione qui). Per quanto riguarda la tassa piatta, poi, essa mette nelle mani del fisco un’arma a doppio taglio: dopo l’emersione pressoché integrale della platea contribuente sotto un regime tributario amichevole, infatti, nulla vieta di passare repentinamente a un’eventuale “fase due” tosando il gregge pagante ad aliquota tanto unificata quanto esosa. Inoltre risultati simili a quelli della flat tax si possono ottenere anche “solo” attraverso misure di stampo thatcheriano (vedi qui).
In definitiva, a tratti l’impostazione generale di Contro le tasse dà l’impressione che Giannino, nell’ansia di accreditarsi come riformista a tutto tondo e di sottolineare a più riprese che tagliare le tasse “non è di destra”, voglia far passare un liberismo purchessia, tecnocratico e asettico. Come se dietro le tanto celebrate avventure riformatrici di Reagan e Thatcher non vi fosse stata una precisa concezione antropologica e filosofica (l’individuo delimita lo Stato per diritto naturale e non il contrario), tale per cui il liberismo si dimostrasse “funzionante” in quanto “giusto” anziché l’opposto. L’inversione dell’antifona dà luogo a sofisticati socialismi di mercato o a bersanizzazioni, ossia alle molteplici filiazioni del modello “giacobino” di individualismo solipsista, con cui lo Stato perseguita tutto quanto si frappone “fra la propria pretesa di esercitare potere assoluto e il cittadino nudo e indifeso, il più possibile privo di reti di solidarietà e sussidiarietà” e del quale Giannino ha orrore.
Ad ogni modo non sarà certo il perfettismo filosofico a farmi sottovalutare l’importanza divulgativa di questo libro; specie in un Paese come il nostro, nel quale l’articolo 23 della Carta Costituzionale e lo Statuto dei diritti del contribuente sono quotidianamente violati dalla sistematica adozione di norme fiscali per decreto legge. Primum vivere!
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di Massimo Messina Il sistema proporzionale assegna tanti seggi in proporzione a quanti voti vengono presi da ogni singola lista. Di metodi di calcolo di tale proporzione ce ne sono diversi. La diversità nell'ambito dei sistemi maggioritari è ancora maggiore, non trattandosi solo di diversità di metodo di calcolo, bensì di modalità di attribuzione dei seggi.
Il sistema proporzionale (tra i più proporzionali esistenti al mondo) lo abbiamo avuto in Italia dal dopoguerra alla riforma maggioritaria dell'inizio degli anni '90. Tale sistema ha portato al predominio della DC e poi l'unità nazionale partitocratica.
Il Mattarellum era un mostro al 75% uninominale maggioritario ed al 25% proporzionale. Per la parte uninominale era maggioritario, infatti per maggioritario si intende che il maggior partito prende più seggi e con l'uninominale nel singolo collegio il partito che prende un voto in più si accaparra l'unico seggio da attribuire nel collegio, quindi prende di più eccome, prendendo tutto il prendibile.
I sistemi maggioritari, infatti, solitamente non assegnano premi di maggioranza, l'effetto maggioritario è automatico senza bisogno del meccanismo del premio. Ciò significa che solitamente ad ogni elezione risulta una maggioranza parlamentare, ma ciò non è affatto detto che debba accadere. Solitamente i partiti finiscono per capire che solo accorpandosi hanno possibilità di eletti e così il sistema tende "naturalmente" verso il bipartitismo. Il mattarellum (senza quota proporzionale!!!) avrebbe portato nel tempo (non in una singola o due tornate elettorai, ma almeno in un decennio) ad un sistama bi-tripartitico, che non significa meno democrazia, in quanto in ognuno di essi può benissimo essere presente la ricca diversità che qui in Italia siamo abituati a vedere in più partiti.
Vero è che i sistemi bibartitici tendono a far somigliare i due partiti nel lungo periodo, ma le diversità finiscono per esprimersi ugualmente tra destra a sinistra come possiamo ben vedere nei sistemi politici anglosassoni.
Il sistema elettorale uninominale maggioritario (Mattarellum senza quota proporzionale) ha permesso in Gran Bretagna al partito laburista, che era fuori dal Parlamento non solo di entrarvi, ma di divenire il secondo e poi il primo partito, andando al governo. Forse è vero che lì ora dovrebbero cambiarlo poiché è mutata la situazione politica, ma non è vero che di per sé il sistema elettorale maggioritario uninominale impedisce il nascere ed il crescere di forze terze o quarte. L'Italia aveva richiesto a gran voce il maggioritario ed aveva mutato di conseguenza il suo modo di votare, ma poi sono arrivati Berlusconi e Calderoli e la loro porcata.
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di Francesco Lorenzetti Strano, per un libertario, il porsi certe domande. La libertà è un valore? Certamente ci sarà chi si scandalizza già per l’idea che se ne possa discutere. Come si può, infatti, mettere in discussione quello che sembra uno dei pochissimi punti fermi di ogni riflessione filosofica, sociale e politica della storia dell’umanità? In fondo, dicevano di tenere alla liberà personaggi molto diversi fra loro come Marx, Tocqueville, Platone, Locke, De Vitoria, Roosevelt e Peròn. Chi siamo, noi, per attaccare quest’unica bellissima parola che sembra mettere, per una volta, tutti d’accordo?
Il fatto è, però, che le cose non stanno esattamente in questi termini. È vero, i personaggi sopra citati usavano tutti la stessa parola, ma intendevano indubbiamente cose diverse. Marx pensava ad una libertà di classe, intesa come il prevalere degli operai sui capitalisti; Platone vedeva la libertà nella scelta; Locke e De Vitoria calarono la libertà nella sua dimensione più politica, come diritto soggettivo che avrebbe dovuto proteggere gli individui dal potere dello Stato; Roosevelt e gli altri leader politici, al contrario, hanno convinto milioni di persone che proprio il welfare state avrebbe garantito loro la “libertà dal bisogno”. Non c’è nulla da scandalizzarsi, dunque, se affrontiamo l’argomento in questione domandandoci se davvero esista un’idea comune e generale di libertà che possa intendersi come un valore prezioso per l’essere umano.
Per rispondere, cominciamo a dare la prima, e più scontata, definizione di libertà in senso generale, così come intesa dalla stragrande maggioranza delle persone comuni e dei filosofi moderni: la libertà è “assenza di impedimenti”. Sono sicuro che molti di voi si rispecchieranno in questa definizione molto semplice e concisa, condivisa peraltro con il resto del mondo occidentale moderno. Non è un caso, infatti, che nella lingua inglese si usi la stessa parola per dire “senza” e “libero”. Dimostrazione del fatto che, anche da un puto di vista etimologico, esiste una indubbia connotazione in negativo dell’idea di libertà.
Benjamin Constant, nella sua opera più famosa, La liberà degli antichi paragonata a quella dei moderni, definisce proprio come “negativa” (o “libertà da”) la libertà dei moderni, opponendo ad essa l’idea di una “libertà positiva” (o “libertà di”) tipica degli antichi (si riferiva soprattutto alla Grecia classica) che sarebbe oggi non più riproponibile in ambito politico data l’impossibilità “pratica” dei cittadini degli Stati moderni, per la grandezza e la complessità di questi ultimi, di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, ragion per cui si sarebbe privilegiato un concetto moderno di libertà che tutelasse gli individui “dallo Stato” piuttosto che “nello Stato”.
L’interpretazione di Constant ha trovato, e trova tutt’oggi, autorevoli sostenitori, e contiene sicuramente degli elementi di verità. Essa ha però un difetto piuttosto evidente, quello cioè di ridurre l’intera discussione all’ambito politico, come se il problema della libertà si risolvesse unicamente nel rapporto fra il cittadino e lo Stato (o, nell’antichità, fra il cittadino e la polis). Inoltre, il fatto di ricondurre la causa del moderno revirement sull’idea di libertà ad un fatto storico-materialistico come la nascita dei grandi Stati moderni mi pare una forma di materialismo storico ante litteram da parte dell’autorevole studioso francese.
Constant sembra dimenticare che il problema della libertà non è solo di tipo verticale, cioè da riferire al tema del potere, ma si pone anche (anzi soprattutto) in senso orizzontale, ossia nel rapporto fra le persone che compongono un corpo sociale. E, in questa seconda ipotesi, l’idea della libertà negativa cade in un’aporia gravissima, già nota agli antichi ma clamorosamente dimenticata dai moderni. Se, infatti, fosse vero che la libertà è “assenza di impedimenti”, allora dovremmo convenire che la libertà massima di un essere umano si raggiungerebbe con... il suicidio. Non si può negare, infatti, che ogni cosa del mondo sia, in una certa misura, un “impedimento” al nostro agire, e a maggior ragione il limite della nostra fisicità. Ad esempio: i nostri muscoli ci impediscono di camminare per troppo tempo senza fermarci, il freddo ci impedisce di uscire di casa vestendoci come vogliamo, il nostro aspetto fisico potrebbe impedirci di avere la donna che sogniamo, la nostra vista imperfetta potrebbe impedirci di entrare nell’aeronautica, e così via.
Partendo da tali constatazioni, ed utilizzando un’idea di libertà esclusivamente “negativa”, arriveremmo dunque alla sconcertante conclusione che saremmo massimamente “liberi” nel momento in cui non avessimo più nulla (in questo senso, “free”, all’inglese). Non a caso, uno dei miti della modernità è stato Robinson Crusoe, uomo solo e senza legami, che vive su un'isola deserta, e quindi massimamente "libero" ed autosufficiente.
Sulla secondaria questione, invece, dell’origine di questa stramba idea moderna di libertà, io mi oppongo alla spiegazione di Constant ricordando come essa sia piuttosto la conseguenza di quell’idea “quantitativa” della realtà tipica di tutta la modernità anziché di qualche particolare avvenimento storico-politico come la nascita degli Stati moderni. Per trovare una diversa, e meno contraddittoria, definizione di libertà, è però corretto il suggerimento di Constant. Occorre risalire alla Grecia classica.
[… che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e quindi non possiamo liberarci da noi stessi e tantomeno svignarcela, mi membra un pensiero profondo e non facile a penetrare compiutamente; ma, ad ogni modo, almeno questo, o Cebete, mi pare ben detto: che sono gli dèi che hanno cura di noi e che noi siamo in possesso degli dèi]
In queste parole, messe in bocca a Socrate da Platone nel Fedone, c’è il presupposto per capire il perché gli antichi utilizzassero un concetto molto diverso dal nostro riguardo alla libertà umana. E questo presupposto è l’idea che l’uomo viva in uno spazio ristretto (“una specie di carcere”, dice Platone) da cui non può fuggire, entro mura che non può abbattere, che sono imposte alla sua natura dagli dèi. Cioè, l’uomo è limitato in quanto uomo, e i suoi tentativi di “liberarsi” dai vincoli che gli sono imposti sono vani tentativi di evasione dalla sua natura.
Recentemente ho visto un film molto piacevole che rappresentava in modo icastico questa condizione dell’uomo, con una punta d’ironia nei confronti di Nietzsche e di tanti altri filosofi della “liberazione” in senso moderno. Si chiamava Little Miss Sunshine, e parlava di una strampalata famigliola americana in cui il capofamiglia cercava di insegnare ai suoi figli che credendo in loro stessi, impegnandosi al massimo e “non accettando di perdere, mai”, avrebbero ottenuto qualsiasi risultato. Durante il lungo e sfortunatissimo viaggio verso il concorso di Piccola Miss California, dove la loro figlioletta simpatica ma non bellissima avrebbe dovuto gareggiare per il titolo, si palesa però tutta l’assurdità di una tale ideologia. È un film che consiglio di vedere, perché dimostra in modo semplice ed efficace quanto sia vera l’intuizione classica su questo aspetto della natura dell’uomo.
Dunque, la libertà per gli antichi non stava nella (vana) ricerca dell’abbattimento dei limiti che ci sono imposti, ma nella scelta delle nostre azioni. E questo si spiega perchè il vincolo e la possibilità, per i classici, vivono insieme. Pensiamo, ad esempio, all'attività di un artista, poniamo un compositore. Secondo la dottrina della libertà negativa, gli aspetti tecnici e teorici della musica dovrebbero essere considerati dei vincoli alla sua libertà di espressione. Al contrario, secondo la mentalità classica, sono proprio quelle conoscenze a permettere al pianista di esprimersi e al contempo di piacere al resto delle persone, le quali non comprenderebbero nulla dell’opera se questa fosse totalmente sganciata da criteri estetici condivisi. La libertà dell’artista risiederebbe, dunque, nella tecnica, non suo malgrado o in opposizione ad essa.
Ecco perché, nelle riflessioni classiche, il tema della libertà non era così sentito come nella modernità, e si potrebbe addirittura dire che non fosse percepito come un particolare valore da tutelare in assoluto. Piuttosto che di libertà di discuteva, soprattutto nell’ambito politico, preferibilmente di Giustizia, intesa come virtù capace di trovare un difficile equilibrio fra due opposizioni. Ad esempio, si può pensare che un impedimento limiti la mia possibilità di fare una scelta, ma non per questo esso sarebbe, automaticamente, da condannare e da rimuovere. Potrebbe ben darsi, infatti, che questo impedimento sia giusto (ad esempio se io volessi compiere un crimine e qualcuno mi fermasse).
Nessuno, infatti, negherebbe che si possa limitare la libertà di chi si comporta male, e ciò significa, perlomeno, che libertà e giustizia sono due elementi inestricabilmente collegati, e che la seconda è sovraordinata alla prima. S. Agostino, infatti, distingueva giustamente una libertas minor, come generica possibilità di scelta, e una libertas maior, che invece era la scelta di agire orientandosi al bene. Solo quest'ultima, dunque, sarebbe un valore vero e proprio, perchè congiunta ad un criterio di giustizia, mentre la prima, in quanto tale, non sarebbe necessariamente meritevole di tutela.
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Un antisionista israeliano o è un matto masochista o è un santo (non nell'accezione comune di persona da venerare, ma di persona di buona volontà) che vuole la pace ed è disposto ad eliminare Israele pur di giungere alla pace ed ad una soluzione monostatale, che io non disdegno affatto. Un antisionista non israeliano esprime disprezzo verso uno Stato che non è il suo, come se ci fossero non italiani che si definissero antiitaliani. Lo accetteremmo? Se possiamo finire per accettarlo (ingiustamente) per i leghisti che italiani sono, mai lo accetteremmo per movimenti, Stati o singole personalità politiche estere. Perché ciò dovrebbe essere accettato da Israele? C'è qualcuno che si caratterizza per essere antiarabopalestinese? L'antinazionalismo non mi convince neppure come espressione. Usiamo termini in positivo, che esprimano meglio ciò che vogliamo costruire, piuttosto di ciò che intendiamo superare.
Il termine "antisemita" ha ormai sostituito totalmente quello di "antiebreo". Così finisco per leggere che Hamas è antisemita, come se i membri di Hamas non siano semiti anch'essi. Sono per una soluzione monostatale ai problemi israelopalestinesi. Soluzione monostatale è pure quella degli estremisti iraniani (infatti loro sono per uno Stato arabo islamico possibilmente sciita che butti al mare gli ebrei o che comunque li renda "inoffensivi"). Specifico, quindi, che lo Stato che voglio per la Palestina storica dovrebbe nascere da Israele e non contro Israele, che tale Stato sia il compimento delle speranze laiche, liberali e socialìste che stanno alla base del sionismo storico, che tale Stato e che lo sforzo per realizzarlo, quindi, non possano mai essere antisionisti.
Essere antisionisti oggi ed esserlo da non cittadini israeliani significa essere contro l'unico Stato al mondo a maggioranza ebraica. Qualsiasi ebreo o mezzo ebreo come io mi dichiaro credo che abbia il diritto di sentirsi per lo meno offeso. Immaginate che ci sia mezzo mondo letteralmente (capi di Stato, di governi esteri, movimenti più o meno organizzati, manifestazioni di piazza, personalità della cultura e gente comune) che dica peste e corna del Risorgimento, della Resistenza e della Costituzione italiana, che bruci il nostro tricolore e si faccia saltare per aria tra la popolazione italiana, che dichiari che gli italiani debbano sparire dalla penisola o che almeno non hanno il diritto di avere un loro Stato unitario poiché nato dalle violenze delle annessioni capeggiate da casa Savoia. Immaginate che tutto ciò avvenga quotidiamente e dappertutto, a partire dai salotti delle persone che più stimate. Se vivessimo in un clima simile noi italiani (residenti in italia o appartenenti alla diaspora italiana all'estero) accetteremmo che ci venisse detto che tutto ciò non è antiitaliano, ma soltanto contro l'ideologia della Repubblica Italiana? Non credo. Ecco spiegato con un esempio perché antisionismo significa antiebraismo.
A volte ciò che appare ragionevole non lo è affatto e la soluzione del problema israelopalestinese costruendo uno Stato arabopalestinese nei territori di Cisgiordania e Gaza è un esempio di ragionevolezza apparente. Volere fare nascere oggi uno Stato arabopalestinese nei territori della Palestina non israeliana sembrerebbe ragionevole, appunto, seguendo la logica della considerazione che è dal 1948 (anche da prima, a dire il vero) che lì i sionisti e gli arabi si fanno la guerra e, di conseguenza, se li separiamo e creiamo condizioni pressocché paritarie smetteranno di combattersi. A parte che tale semplificazione della realtà storica poco ha a che vedere con la realtà, quel poco che, comunque, di reale ha conduce, a mio modesto parere, a considerazioni opposte. Se ormai volere giudicare la nascita dello Stato israeliano ha poco senso logico e tanto senso negativamente ideologico, giudico la nascita dello Stato arabopalestinese come la peggiore tra le sciagure che possano capitare innanzitutto proprio agli arabopalestinesi. Tra l'altro, proprio l'attenzione per le parole mi porta a chiamarli così e non palestinesi soltando, poiché palestinesi sono anche gli israeliani, poiché quella regione geografica così si chiama da millenni, dal Giordano e dal Mar Morto fino al Mediterraneo e la geografia fisica non conosce confini, né ideologie. Lo Stato arabopalestinese dipenderebbe sempre da Stati esteri e attualmente finirebbe nelle mani della peggiore cricca (specialmente se a vincere l'attuale loro guerra civile strisciante sia Hamas).
Sono d'accordo, invece, sull'idea di far entrare Israele nell'Unione Europea. Canalizziamo tale percorso d'ingresso in maniera tale che Israele divenga sempre più lo Stato plurinazionale che non fa discriminazione alcuna tra i suoi cittadini. Favoriamo chi in Israele voglia fare tale percorso finanche essendo disposto a non usare più per il proprio Stato i simboli nazionali israeliani (nessuno gli impedirà di usare tali simboli per organizzazzioni intrastatali pubbliche e/o private, ovviamente). Gerusalemme potrebbe benissimo essere la capitale storica e culturale di tale rinnovato Stato plurinazionale postsionista (non antisionista) ed euromedioorientale. Ecco la mia ipotesi di Stato unico.
Il nome di Stato Palestinese, ad esempio, sarebbe per me abbastanza appropriato, se coinvogesse anche CIsgiordania a Gaza. Sarebbe un nome neutro e credo che nessun israeliano avrebbe paura a chiamare nei documenti ufficiali Palestina ciò che nel cuore chiama Terra d'Israele, se a base di un tale Stato ci fosse un totale rispetto dell'identità ebraica come di quella araba.
Continuo a dirmi sionista poiché realizzazione del sionismo è lo Stato d'Israele, che ritengo sia oggi ciò che più di ogni altra organizzazione si avvicini allo Stato unitario che auspico. Per realizzarlo non ritengo affatto possibile né auspicabile la fusione tra Israele ed ANP, specialmente alle attuali condizioni: l'ANP è allo sbando, non rappresenta l'interezza degli arabopalestinesi (neppure di quelli abitanti i territori palestinesi non israeliani) ed inoltre è in atto una guerra civile strisciante tra Fatàh e Hamàs, la quale rappresenta la maggioranza degli abitanti di Gaza.
Il primo passo, a mio modesto avviso di sionista filoarabopalestinese, dovrebbe essere quello di cancellare le discriminazioni interne allo Stato d'Israele tra cittadini ebrei e non. Discriminazione che è vergognosa e non giustificata dallo stato di guerra permanente. Non credo si possa giungere allo Stato unitario liberaldemocratico (nelle righe sotto spiego meglio che intendo) se non facendo in modo che l'entità che più gli rassomiglia (Israele) adotti i principi su cui vogliamo fondarlo. Da parte nostra di europei ciò potrebbe essere favorito dall'ingresso di Israele nell'Unione Europea. Se si lasciasse intendere in maniera chiara che le regioni di Cisgiordania e Gaza avrebbero il diritto di ingresso in Israele che entra nell'Unione Europea vedrei tale mossa favorire l'eventualità che emerga una figura politica arabopalestinese che guidi il suo popolo verso la pace e la libertà della soluzione monostatale che qui prefiguro, specie se si dicesse in maniera chiara che i simboli ed il nome statali potrebbero in tale fase "costituente" essere concordati.
Da sionista pretenderei che ciò non cancelli Israele, ma che la renda una parte dell'entità statale unica come un cantone lo è della Svizzera o il lander della Baviera lo è della Germania e lo stesso tipo di autonomia potrebbero avere la regione di Gaza o la Cisgiordania, ovviamente. Il nuovo Stato Palestinese dovrebbe essere fondato sulle idee della liberaldemocrazia, che include democrazia e non discriminazione, includendo Stato di Diritto e legame cultural-politico con l'Occidente, inteso nel senso politico e non geografico (Australia, India, Giappone, quindi, inclusi). La nascita di tale Stato ed il suo ingresso nell'Unione Europea dovrebbe essere accompagnato all'impegno, da parte dell'Unione Europea stessa di dare risarcimento ai profughi palestinesi, intendendo per profughi quelli che realmente hanno subito perdite ingiustificate dalla nascita dello Stato israeliano o dalle guerre che si sono succedute in questi '60 anni, includendo i loro figli. La legge del ritorno e le massiccie immigrazioni di ebrei (e non ebrei che hanno approfittato delle falle della legge) negli anni '90 hanno favorito le attuali violenze, una "legge del ritorno" per i palestinesi dovrebbe, quindi, essere esclusa. La questione sionista e quella palestinese sono congiunte e sono transnazionali e possono avere adeguata soluzione solo a livello transnazionale.
Perché è nato il sionismo? Perché i nipoti ed i pronipoti di palestinesi che vivono (ed hanno vissuto dalla nascita e magari vorrebbero continuare a vivere) in un altro Stato arabo non ne hanno la cittadinanza? Il sionismo è nato per dare patria a qualsiasi ebreo del mondo che voglia vivere in uno Stato ebraico, a prescindere da dove fondarlo. Poi si scelse, sbagliando a mio avviso, la Palestina ed ora lo Stato israeliano esiste eccome, ma è destinato o a morire o a trasformarsi nella peggiore macelleria fascista di quell'area del globo. L'aspirazione di dare patria a qualsiasi ebreo del mondo voglia averne credo sia ancora, purtroppo, valida, ma bisogna prendere atto che tale patria non può essere né l'attuale Israele né l'eventuale futuro Stato unitario. Allo stesso modo gli arabopalestinesi debbono comprendere che è impraticabile la via del ritorno dei loro profughi o meglio di quelli che nella loro maggioranza tali vengono considerati per strumentalizzarli affinché nella Palestina pace non ci sia finché c'è Israele ed i sionisti.
L'unico sionismo politico attuale nello scenario globale è lo Stato d'Israele, con tutte le sue contraddizioni e con i suoi pregi e difetti. Qualsiasi antisionismo pretende di cancellare tale Stato. Il mio monostatalismo liberalfederale accetta che i simboli, l'inno e perfino le attuali istituzioni israeliani non vengano smantellate fino a che sionisti abitino nell'attuale territorio israeliano. L'importante è che tutto ciò non venga imposto alla restante parte (arabi ed altri) del territorio palestinese. Sionismo e monostatalismo liberalfederale sono perfettamente compatibili, quindi.
Da gandhiano non mi dispiace neppure il nazionalismo, inteso non nelle sue degenerazioni, ma come amor patrio od anche amore per la cultura e le tradizioni della propria etnia. Gli attuali nazionalisti arabi pure, nello Stato federale che auspico, e forse anche meglio di ora potranno esprimere i propri sentimenti, anche quelli di odio antiebraico, l'importante è che non venga tollerato il passare alla violenza.
Ogni reale speranza per israeliani ed arabopalestinesi è per me nella soluzione monostatale. Gli arabi dovrebbero battersi per entrare in tale Stato e per renderlo migliore, piuttosto che per separarsi illisoriamente da Israele con l'idea anacronistica, violenta ed irrealizzabile dell'indipendenza.
Legge del ritorno e risarcimento ai profughi palestinesi dovrebbero essere assunti, nel quadro che qui prefiguro, come carichi, onerosi ma onorevoli, dagli Stati Uniti d'Europa auspicati dai radicali o, almeno, dall'Unione Europea così come attualmente è, entrando Israele nell'Unione.
Per ciò che riguarda "la legge del ritorno", ne vorrei una che sia valida per chiunque si dichiari ebreo e viva in Stati in cui ciò basta per non essere sicuro, per qualsiasi ragione. Vorrei una tale legge per l'intera Unione Europea. Lunga vita ad Israele! Pace e libertà all'intera Palestina... federata con gli Stati Uniti d'Europa.
Purtroppo, invece, la guerra sta trasformando Israele in qualcosa che mi fa paura. Per questo dobbiamo al più presto batterci per farla ritornare alla ragione ed alle sue radici laiche e liberal-laburiste. Chi meglio di chi si ispira all'azionismo può fare ciò? Quale forza politica può vantare tale comunanza di ispirazione di fondo con il sionismo? Salviamo Israele dalle degenerazioni militariste e nazionaliste, che la stanno trasformando in un mattatoio! Il movimento sionista, infatti, era laico e liberal-laburista come nessun altro movimento politico al mondo se non quello azionista. Lo Stato d'Israele oggi mi sembra sempre meno laico e sempre meno liberal-laburista. Sempre meno sionista, quindi. A parte gli ebrei azionisti che tutti conosciamo, molti ebrei italiani sono passati dalla tessera del Partito d'Azione al movimento kibbutzim in Israele, ovvero dal battersi per la libertà ed un socialìsmo non dogmatico qui in Italia a costruire praticamente un socialìsmo che non si è macchiato di ideologismo e di crimini in Israele. Tanti sono i legami tra azionismo e sionismo. Primo fra tutti i nomi di tali legami l'architetto e storico dell'architettura Bruno Zevi, sionista ed azionista. Alcuni esponenti azionisti erano dichiaratamente dalla parte di Israele.
Riguardo i "sionismi di destra", non mi pare abbiano caratterizzato la società e la politica israeliana come e quanto i sionisti laburisti, ma è vero che negli ultimi vent'anni le cose hanno preso un'altra direzione e di sperimentazione socialìsta se ne vede e se ne parla sempre meno, mentre di guerra e di paura se ne vede e se ne parla sempre più nella mia amata ed alla deriva Israele.
Continua...
di Giovanni Maria Ruggiero Sto leggendo i diari di Montanelli, da poco pubblicati sotto il titolo: “I Conti con Me Stesso”. I contenuti sono interessanti, anche se abbastanza prevedibili per chi conosce le vicende di quegli anni. Intrigano i suoi incontri con contemporanei più o meno noti e illustri. Sapevo già cosa pensava Montanelli, e sapevo già dove sarei stato d'accordo e dove no. Tra le cose che approvo di meno, il solito anti-italianismo di maniera (ma meno abbondante di quanto temessi), che tenta di travestirsi di brillantezza e di intelligenza toscana ed è invece troppo spesso sterile, gratuito e in fondo auto-compiaciuto.
Le critiche mature andrebbero fatte su problemi e accompagnate da una qualche idea risolutrice. Trovare spiegazioni generiche e catastrofiche, additare un colpevole inafferrabile -quale il misterioso carattere italiano- serve soprattutto ad assolvere la propria coscienza. L'indignazione è un'emozione, e come tutte le emozioni essa dura poco e partorisce solo sé stessa e gratifica solo sé stessa, senza insegnare nulla.
Alcuni anni fa ebbi in cura una paziente, guarda caso anch’egli toscana. Il suo problema era l’ansia, ma in più ella colorava il suo disturbo psicologico di una sua montanelliana polemica anti-italiana. Fu inevitabile invitarla a riflettere sul significato emotivo di quel suo rancore. Si trattava di un tipico intervento terapeutico: rendere il paziente consapevole della funzione dei propri stati emotivi. Inizialmente quella paziente rispose fornendo spiegazioni tra il politico e il sociologico, tutte al tempo stesso plausibili ma generiche, al fondo applicabili a qualsiasi paese. Infine, anche grazie alle mie insistenze, ammise la verità, dicendo: “Dovrei dunque rinunciare alla soddisfazione di disprezzare gli altri, di sentirmi migliore?” Sentirsi migliori attraverso l’abbassamento altrui e non attraverso il proprio innalzarsi. Questo non vuol dire rinunciare alla critica, ma costringersi alla critica concreta e priva di queste collaterali e sterili soddisfazioni. Scriveva Montaigne da qualche parte che la fiducia nella bontà altrui è una notevole testimonianza della propria bontà.
Rifletto poi sul fatto che Montanelli, nei suoi ultimi anni, sia riuscito a infettare la sinistra italiana con questo suo lamentoso anti-italianismo. Il diario suggerisce che anche Giorgio Bocca apprese questa posa dallo stesso Montanelli. L'anti-italianismo infetta e indebolisce la sinistra, rendendola ancor più invisa a quell'elettorato mediano che decide l'esito delle elezioni. Sinistra invisa e disprezzata, poiché è fin troppo chiaro che questo anti-italianismo non è cosa "di sinistra", ma è un atteggiamento imitato. La vecchia sinistra comunista ne era meno affetta, avendone intuito la provenienza estranea.
Questo fastidioso anti-italianismo nasce dalle debolezze del liberalismo italiano, un liberalismo intellettuale e "nerd", fatto di borghesi timidi e bibliotecari, separati dalla vita popolare e persi nelle fantasie libresche di una Inghilterra astratta e mai avvenuta. Fingendo di ignorare che il liberalismo inglese nacque e crebbe anche grazie a pirati e predoni. Il partito comunista aveva di buono il suo radicamento popolare. Oggi la sinistra adotta questo sussiego pseudo-borghese e cerca di combinarlo malamente con una brillantezza che vorrebbe essere virilmente satirica ed è invece sempre infantilmente pop, che nasce costantemente già nota che non diventa mai vera trasgressione. E' il doppio modello fornito dal giornale Repubblica e dalla proliferazione infinita della satira, la doppia falsa soluzione alla caduta ideologica del comunismo con le quali la sinistra si è avvelenata.
Ma basta sparare su questa sinistra, torniamo a noi. Questa retorica anti-italiana la apprendiamo quando parliamo tra amici, o in famiglia. Ecco il problema. Invece di educare noi stessi all’accortezza del giudizio, alla prudenza, alla capacità di controllarsi, all’attesa di nuove informazioni prima di giudicare, alla volontà di lasciare che gli stati d’animo di sviluppino e maturino al loro ritmo evitando che siano emessi nella loro forma più iniziale e più rozza, e infine al desiderio di apprendere quella giusta capacità di stimare gli altri che è alla base della società civile, facciamo altro. Ci diseduchiamo a questa caricatura dello spirito critico che è la disposizione eternamente risentita e sprezzante verso gli altri, disposizione che vuole travestirsi di arroganza e che invece è soprattutto timidezza e timore del confronto, disposizione che vuole vestirsi di intelligenza e che invece è una sorta di saggezza a buon mercato e buona a tutti gli usi.
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di Sara Acireale I riflettori si sono finalmente spenti e Eluana Englaro riposa in pace, ma la sua vicenda sta continuando a condizionare il confronto politico e particolarmente l'esame del provvedimento sul testamento biologico. Vogliono cancellare il "diritto di scelta" per tutti i cittadini. Sul testamento biologico è stato votato un testo massimalista. Non c'è stato nessun "punto d'incontro" con gli altri soggetti politici. E' questo il "partito della libertà"? Si sono posti seri limiti alla libertà di cura dei cittadini. Si parla di coscienza ma la libertà di coscienza non può essere invocata a senso unico.
Essere "liberi" non significa essere felici, a volte la scelta è molto dolorosa ma la libertà di pensiero consiste in questo: scegliere, soffrire, vivere o morire senza che il governo o la Chiesa entrino nel letto dei pazienti. A questo bisogna mettere un argine. Stiamo vivendo una regressione culturale impressionante che è all'origne della nebbia che ci avvolge. Esiste un'informazione devastante che ha le sue origini in questa regressine culturale.
Bisogna riflettere. Beppino Englaro ha fatto pensare molti cittadini, così come aveva fatto Piergiorgio Welby. La maggioranza ha posto la questione cominciando dall'articolo 1 del disegno di legge, dove si dice: "La Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indispensabile". Non nego che questo discorso sia giusto, ma la disponibilità della propria vita spetta al singolo individuo. La rivoluzione del consenso informato, il ribaltamento della relazione del medico col paziente, l'attribuzione della persona di decidere liberamente della propria vita. Vogliamo negare tutto questo?
Beppino Englaro ha intrapreso una dura battaglia durata 17 anni, io lo ritengo un eroe civile perché non ha preferito nascondersi nella clandestinità. Penso che debba essere un esempio per tutti. Molte menzogne sono state dette in tv tra le quali:
1) Una falsità è dire che l' alimentazione artificiale è una terapia: non lo è. 2) Hanno detto che Beppino Englaro avrebbe richiesto la sospensione della terapia perchè sconvolto dal dolore. Non è vero. Lui afferma che: "Eluana era una ragazza che amava la libertà, diceva sempre che non avrebbe voluto vivere una vita che non è vita. Sono suo padre e voglio rispettare la sua volontà".
E' giusto e sacrosanto rispettare la volontà di una persona, in questo caso di Eluana e suo padre lo ha fatto. La Chiesa cattolica parla di misericordia e, nel contempo, taccia Beppino Englaro di assassinio. Usiamo misericordia verso questo padre che ha sofferto e lottato per 17 anni per porre fine a una tragedia senza speranza.
Desidero terminare questo articolo con le parole pronunciate al sinodo del 1998 della chiesa valdese:" Il medico che si rende disponibile all'eutanasia attiva o passiva al fine di porre fine alle sofferenze e esaudire le richieste del paziente non viola alcuna legge divina, ma compie un gesto umano di profondo rispetto".
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Recensire Die Welle non è facile. Un po’ perché il film si presta a commenti ormai frusti sulla inquietante realtà del totalitarismo e rischia quindi di tralignare nell’odioso luogocomunismo sul tema, un po’ perché gli argomenti che ivi si affrontano (o che viceversa non vengono proprio toccati) sono davvero molti e difficilmente possono essere riassunti in poche righe.
Il lungometraggio, uscito in Germania nel marzo 2008, è stato accolto con freddezza da tanta parte della critica, che da un lato ne ha sottolineato il pressappochismo nella costruzione della trama (a tratti effettivamente poco credibile) e dall’altro ha rilevato l’incapacità del regista Dennis Gansel di indagare a fondo i fenomeni psicologici, morali e sociali che hanno animato questa surreale esperienza scolastica. Mi pare invece un rimbrotto assai poco giustificato quello mosso da Christoph Cadenbach sul settimanale Der Spiegel. L’Onda non rappresenta affatto, come si sostiene, un’assoluzione del mondo contemporaneo e delle società fondate sulla primazia del libero mercato. Certo, la base sulla quale si cementa il sacro vincolo del gruppo è e deve pur essere quello della lotta contro un sistema ingiusto ed oppressivo, che troppo poco (se non marginalmente verso la fine) viene in primo piano durante il film.
Che cosa ha spinto i ragazzi di quella classe di liceo a ribellarsi e fare quadrato? Quali sono le ragioni profonde che li hanno tenuti legati in maniera così ossessiva per giorni e giorni? A questi interrogativi, non viene in effetti data una risposta sufficientemente esaustiva. O meglio, molto è demandato all’immaginazione e alla perspicacia del pubblico. Il che non è di per sé sbagliato. La cinematografia deve saper anche vellicare la fantasia e la capacità di astrazione dello spettatore. Ma lo deve fare con acume e raffinatezza intellettuali. L’impressione è che qui troppo sia invece stato lasciato al caso. La trama pare infatti semplicisticamente costruita intorno alla dimostrazione della tesi iniziale, senza attenzione e cura per i particolari.
Detto ciò, il messaggio della pellicola è chiaro e netto. La retorica del gruppo e l’afflato comunitaristico, per quanto desiderabili, sono sempre destinati a conculcare la libertà, derubricandola con disgusto a pernicioso egoismo. L’individualismo cocciuto e il legittimo desiderio di competizione della- per molti versi- randiana Karo, spigliata allieva del professor Wenger che non ci sta e combatte contro l’Onda, sono disprezzati e aborriti dalla massa. Eppure solo il germe della diversità e dell’iniziativa individuale sono in grado di ribaltare il tragico susseguirsi degli eventi, riportando i giovani disillusi al pragmatismo della quotidianità.
Ecco allora che la critica al mondo contemporaneo non è affatto stata tralasciata o posta in secondo piano, come di primo acchito potrebbe sembrare. Dietro al paravento della modernità e agli idolatrati successi della società democratica, anche l’Occidente rischia di precipitare verso il dirupo del collettivismo. Solo una dose di sano e titanico individualismo può impedire il compiersi definitivo di questa parabola discendente. Tocca a noi rimboccarci le maniche.
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Dopo una convivenza di prova durata un quindicennio, Forza Italia e Alleanza Nazionale sono in procinto di convolare a nozze. Saranno giuste nozze? Tutto dipende dagli assetti organici che il nuovo partito metterà a regime di prassi interna, con speciale riferimento alla cultura politica che l’attribuzione delle relative funzioni decisionali intenderà rispecchiare. No, non mi interessa perorare la causa di questa o quella particolare “anima” ideologica destinata a confluire nel nuovo soggetto unitario. È difficile comprendere come un partito a vocazione maggioritaria possa costituirsi se non alla stregua di laboratorio dialettico in cui operare una sintesi di posizioni anche molto lontane tra loro. Il modo corretto di conquistare una prevalenza culturale all’interno delle grandi compagini dovrebbe consistere nel massimizzare il consenso della base votante, a partire da proposte di governo abbastanza equanimi – leggasi asciutte, essenziali, sintetiche – da mettere d’accordo il conservatore e il libertario, il credente e l’ateo.
Tornerò poi sui rischi di questo modello, a titolo puramente speculativo. Perché se ne possa dibattere fondatamente, infatti, occorrerebbe che l’attuale scenario evolvesse in una direzione “americana” nient’affatto alle viste. Vigenti il berlusconismo e il finanziamento pubblico dei partiti, il Pdl non potrà essere che una cupola politica. Rimane da capire se il mandamento prossimo venturo avrà la sua falsariga nell’impostazione forzista o in quella aennina.
La seconda alternativa si riduce a una mera ipotesi da vagliare per amor di discussione, a dire il vero: il sistema di coordinamento fortemente gerarchico tipico di AN può funzionare con partiti medio-piccoli ad alto tenore di collante identitario, o comunque ben circoscritti territorialmente (come la Lega). La ratio del “rompete le righe” finiano di Domenica scorsa, al netto dei motteggi politicamente corretti con cui l’ex pupillo di Almirante sta costruendosi una reputazione da statista irreprensibile, trae senso pratico dalla consapevolezza di cui sopra.
Cammina sul filo della riedizione forzista, allora, il nuovo partito? Sì, tranne che per un aspetto con le carte in regola per rivelarsi dirimente. Prima dello scioglimento, Forza Italia somigliava alla Britannia anglosassone dopo l’invasione normanna, divisa com’era in due caste poco o punto permeabili l’una all’altra. La prima era formata da una sorta di aristocrazia patrizia, divisa tra Parlamento e Consigli Regionali, composta da notabili con lo strapuntino garantito. Persone che non avevano alcun motivo per stare a contatto con la gente, per partecipare alle cene o agli happening elettorali né, in generale, per ritenere la loro posizione meno che garantita. La seconda era l’erede del mercato delle tessere pentapartitico: più dinamica nel suo incessante allestimento di cartelli clientelari, si mostrava assai propensa alla mondanità e dominava la vita politica del partito a livello periferico. I baroni contro il re e la sua corte, per rimanere alla similitudine con l’Inghilterra medievale.
Bene, se – come dice Berlusconi – il Pdl non avrà tessere ma adesioni online, la seconda casta sparirà. O, più realisticamente, dovrà fare i conti con la “società civile” ben al di là di qualche risottata a sbafo o comizietto a gettone. Un po’ di ottimismo, per i vari movimenti d’opinione che costellano la galassia del centrodestra senza godere della benché minima rappresentanza, costa senz’altro meno della grama prospettiva di rimettersi a far valere le quote millesimali – o meglio infinitesimali – di loro strettissima, condominiale spettanza nel vecchio (e pilotato) gioco di nomine e candidature. Partire dalle amministrazioni locali per dare la scalata alla grande politica con qualche speranza di riuscita in più che in passato: non è molto e non è facile, e a questo proposito io e soprattutto Francesco avremmo più di una parola da spendere, ma sono i soli strumenti concreti in grado di salvare i giovani dallo stress dei “saggi” e dei “convegni” su cui l’elitismo, come acutamente sottolineato da Gionata Pacor, può indurre molte belle menti a fossilizzarsi.
Il ceto dei “marchesi”,in ogni caso, rimarrà al suo posto e, perlomeno nel breve-medio termine, continuerà a dettare legge ai piani alti. La democrazia interna ha tempi e costi troppo elevati, che peraltro minerebbero alle fondamenta la cifra stessa del berlusconismo (ovvero accentramento e rapidità decisionali, per chi negli ultimi quindici anni si fosse dedicato all’eremitaggio). Questo non esime certo la dirigenza del centrodestra dal proporre idee di governo convincenti ad ampio spettro rischiando, per tornare al tema “speculativo” anticipato poc’anzi, di enunciare programmi indefiniti, sufficientemente vaghi ma suggestivi da compiacere la più estesa platea elettorale possibile e per dare sostanzialmente carta bianca agli “uomini soli al comando” loro depositari (Ségolène Royal, Barack Obama, David Cameron e, per molti versi, lo stesso Cav. sono ottimi esempi presenti di tale paradigma).
Più che altro il permanere dell’oligarchia cooptata ai vertici del Pdl priverà nuovamente un intero blocco sociale della possibilità di scegliere autonomamente la propria classe dirigente. Un motivo in più per lavorare ventre a terra negli enti locali, aspettando il Godot della contendibilità a tutto campo del fronte moderato che, nei sogni di molti, dovrebbe aprirsi con il dopo-Berlusconi.
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Gionata Pacor è uno dei principali protagonisti di quello che potremmo definire genericamente il mondo dell’attivismo liberale. Promotore di iniziative web come “NeoLib” e “LiberalInRete”, è stato in prima linea nella formazione dei Riformatori Liberali e, più recentemente, nel tentativo di ridare forza e dignità al Partito Liberale Italiano, risorto da qualche anno per iniziativa di vari gruppi nati dalla diaspora post-Tangentopoli. In questa intervista, Gionata ci spiega il suo liberalismo, dice la sua su diverse iniziative di stampo liberale e ci illustra i suoi progetti futuri, sempre orientati ad un obiettivo chiaro e preciso: liberalizzare l’Italia. Prima di tutto: cosa significa, per te, essere liberale?
Per me essere liberale significa cercare di conquistare nuove libertà per gli individui e di difendere quelle di cui gli individui attualmente godono. Ciò vale per le libertà politiche, per quelle civili, per quelle economiche e per i diritti umani. Da quando ho letto un aforisma di Oriana Fallaci questa per me è diventata una missione: "la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere". Penso che i peggiori nemici della libertà individuale siano lo Stato e la classe politica, che si arrogano il potere di limitare le scelte individuali e sottraggono agli individui ingenti quote dei loro guadagni, con la presunzione di spenderli meglio di loro, magari in nome di un "interesse generale" che i politici ritengono di conoscere meglio degli altri. Nel nostro piccolo possiamo fare molte cose per "lottare per la libertà": fare informazione liberale o diffondere la cultura liberale, scrivere su giornali, blog, siti, collaborare con think tank, con associazioni della società civile o con i partiti in senso stretto, cercando di portare dei politici e degli amministratori liberali nelle istituzioni e nelle amministrazioni e diventando noi stessi amministratori e governanti con il fine di limitare il potere dello Stato sulle vite e sulle tasche degli individui.
A proposito di quest'ultimo punto, parlaci della realtà NeoLib.
NeoLib è un'iniziativa nata un paio di anni fa con il fine di raggruppare (a partire dal mondo dei blog) delle forze liberali, liberiste e libertarie, in uno scenario in cui i partiti unici (PD e PDL) non erano ancora all'orizzonte. Poi man mano che gli scenari politici in Italia cambiavano le tattiche e i progetti si adattavano: dapprima si lavorava per un soggetto politico liberale nel centrodestra, poi per una componente liberale del PDL che possa avere voce in capitolo, partecipando alle attività dei Riformatori Liberali, poi lavorando ad un progetto di network liberale, infine, visto il PDL che si sta prospettando, di nuovo al di fuori di esso. Questo "navigare a vista" nella ricerca di spazi dove poter fare politica liberale è dovuto al fatto che gli scenari politici in Italia per noi sono dati: basta che Berlusconi faccia un annuncio dal predellino di una Mercedes per cambiare tutto il panorama politico. Ma se la tattica e gli strumenti con cui fare politica cambiano, l'obbiettivo è sempre quello: fare politica liberale e liberista, e farla possibilmente con il centrodestra.
E' per questa "deriva predellina" che tu ed altri protagonisti della scena liberale italiana, come Arturo Diaconale e Marco Taradash, avete deciso di impegnarvi nel ritrovato PLI?
Il problema non stava nella nascita del PDL, che anzi abbiamo auspicato, ma nel modo in cui questo nasceva: una piramide a rovescio, dove non è la base a eleggere i vertici, ma è il vertice a nominare la base. Noi abbiamo auspicato delle primarie vere (non delle farse come quelle del PD) e ci sono stati proposti i gazebo, nei quali anche i delegati al congresso (che avranno solo il compito di applaudire l'incoronazione di Berlusconi) sono stati cooptati. Abbiamo allora deciso di cercare uno spazio in cui fare politica liberale e credevamo di averlo individuato nel PLI: quel partito stava andando a congresso e una parte della dirigenza del partito aveva chiesto ad Arturo Diaconale di candidarsi alla segreteria. Abbiamo allora deciso di appoggiare la sua candidatura. Il PLI però si è dimostrato chiuso all'innovazione, ha usato tutti i mezzi e i trucchi possibili per ostacolare un rinnovamento e un rilancio del partito ed ha optato per la continuità, ossia una classe dirigente da prima repubblica e per l'inazione nel panorama politico.
Visto che siamo entrati in tema PLI, che mi dici del "Progetto 300" lanciato da Maffei, neo-nominato leader nazionale dei giovani del Partito Liberale?
Se la confronto con le realtà che ho potuto vedere in giro per l'Europa, è un progetto alquanto curioso. In Germania i giovani liberali scelgono democraticamente i loro rappresentanti che poi verranno inseriti nelle liste bloccate democraticamente elette ed entrano democraticamente nei parlamenti regionali, nel parlamento federale ed anche nel parlamento Europeo (dove Alexander Alvaro, parlamentare europeo in carica sarà di nuovo candidato in rappresentanza del movimento giovanile). In Italia si pensa di prendere 300 giovani come se fossero dei polli di allevamento e di "costruire la classe dirigente di domani". Intanto ai gruppi giovanili che si stavano formando spontaneamente hanno messo d'ufficio un "controllore". Un concetto di democrazia un po' bizzarro.
E dell'iniziativa "Libertiamo", promossa dai Riformatori Liberali (dei quali facevi parte anche tu) che ne pensi?
In Italia la libertà individuale è sinonimo di egoismo, e la libertà economica è sinonimo di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questa visione della libertà porta gli italiani a rinunciare alla libertà individuale a favore dello Stato che, come nella visione hobbesiana del Leviatano, si assume il compito di portare ordine nella società. Questo fa degli italiani un popolo di sudditi e non di cittadini. Per cercare di ribaltare questa cultura e questa concezione della libertà sono quindi indispensabili delle iniziative culturali e d'opinione come Libertiamo. L'unico appunto che si può fare è che queste sono delle iniziative elitarie, che cercano di avere dei lettori e del consenso, ma non si preoccupano abbastanza di avere degli elettori e tanto meno dei militanti. Non si può fare tutti gli intellettuali, ed io guardo piuttosto agli strumenti della politica che comportano l'organizzazione dei liberali sul territorio, perché per fare politica liberale, oltre a diffondere gli aspetti culturali, si deve prima o poi puntare ad amministrare, a governare e a legiferare in modo liberale. Sono le leggi che regolano le nostre libertà, non i saggi o i convegni.
L'approdo al PLI è stata una delusione, i "300" e "Libertiamo" non ti convincono. Quali sono, allora, i tuoi prossimi progetti per far vivere attivamente - e non solo tramite in convegni - l'area liberale?
Devo fare un distinguo tra il PLI e "i 300" da una parte e Libertiamo dall'altra: quest'ultimo è un progetto che seguirò con attenzione e con interesse, solo che non offre, come del resto i Riformatori Liberali non hanno offerto, delle modalità di partecipazione finalizzata al radicamento sul territorio. Quello che manca è il "contiamoci per contare", ma la qualità del progetto Libertiamo è fuori discussione. Per contarci e per cercare di contare pensiamo di organizzarci con delle strutture regionali, sfruttando le esperienze accumulate in questi anni nei vari soggetti politici in Italia, in Germania e in Europa, e replicando il modello di www.abruzzoliberale.it di Alessio Di Carlo, che nel suo piccolo ci ha dato molte soddisfazioni. L'idea è quella della glocalizzazione: agire sul territorio (localizzazione) ma senza perdere di vista il quadro globale, ossia la politica nazionale e magari anche la politica europea ed internazionale. Abbiamo le risorse umane ed il know how per avviare questo discorso in molte regioni, anche in vista delle elezioni regionali del prossimo anno.
Bene, Gionata. Grazie per la tua onestà e chiarezza, ed in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri. Nella speranza che si riesca finalmente a "liberalizzare" l'Italia.
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