Il clamore suscitato dall’adunata piazzaiola convocata dal comico/tribuno Beppe Grillo restituisce al dibattito di massa il tema dell’etica politica. Altrimenti conosciuto come "questione morale", il malcostume sibaritico dei titolari di cariche elettive rappresenta un intrinseco problema dei sistemi democratici, notoriamente retti da temporanee "dittature della maggioranza". Per guadagnarsi il consenso necessario alla propria elezione, gli uomini politici hanno bisogno di ingenti risorse economiche. Come prevenire, allora, l’eventualità che la classe dirigente nel suo insieme sfrutti la leva legislativa per procacciarsi ingiustificati privilegi pecuniari? E dove collocare l’insofferenza – meglio nota come antipolitica – espressa dalla gente comune qualora una simile condotta diventi pratica corrente?
A qualche giorno di distanza dal dibattito sul posizionamento cardinale del liberismo, sorge nuovamente il dilemma di ripartire ideologicamente una problematica apparentemente "neutra". Detto altrimenti: la moralità delle figure pubbliche è di destra o di sinistra? Mentre però la politica economica liberale instilla il dubbio poiché, sebbene adottata dai due schieramenti in virtù di motivazioni opposte (in estrema sintesi, per la sinistra è giusta in quanto funziona laddove secondo la destra funziona perché è giusta), essa ha ricadute pratiche tendenzialmente invarianti, nel caso dell’etica politica si assiste a una marcata distinzione binaria anche in concreto.
Per una destra coerentemente libera(ta) da scorie socialiste, infatti, è "giusto" rimettere il giudizio sulla moralità dei candidati alla coscienza dei singoli elettori senza clausole restrittive (ovvero espropriative) di sorta. A una sinistra inevitabilmente debitrice dell’assunto utilitarista per cui il beneficio dei "molti" val bene il costo dei "pochi", invece, non può andare bene l’impostazione liberoscambista di cui sopra, che ha spesso dimostrato di "funzionare" ben poco in relazione al fine di purificare l’esercizio della rappresentanza. Di qui l’inveterato uso di subordinare la sostanza morale dei problemi alla forma legale della loro soluzione: se la tal pratica è permessa dalla legge, allora è giusta; se è vietata, diventa automaticamente sbagliata.
Da bravo ripetitore di esprit jacobin, Grillo ritiene abbastanza esplicitamente che sia la legge a dover creare moralità e costume: come al solito, è un’inversione di cause ed effetti a dislocare l’appartenenza ideologica di un proposito politico. Comunque sia, anche il ducetto ligure dovrà avvolgere la sua retorica in un involucro di divieti. Quali? Uno è quello di presentarsi alle elezioni politiche per i condannati in primo grado: una mostruosità tale da conferire alla corporazione italiana dei magistrati il potere di "confermazione passiva" del suffragio popolare. Credo che dire "incostituzionale" sarebbe ancora poco. Un altro prevede di porre un limite massimo di due mandati ai parlamentari: il risultato sarebbe solamente una paurosa accentuazione dello scarso orizzonte temporale che contraddistingue l’azione di soggetti interessati principalmente a essere rieletti ogni quattro-cinque anni. Il terzo e ultimo consiste nella reintroduzione della preferenza ai candidati, con relativo ripristino del mercato bovino da parte dei "padroni dei voti" di democristiana memoria. A poco o nulla vale peraltro opporre – quale esempio di ferrea intransigenza etica di marca tutta liberale – il contesto americano, nel quale è l’elettorato a respingere spontaneamente le personalità dal discutibile quadro biografico.
Eppure, a lato della sbornia giustizialista denominata "grillismo", vanno fatte anche considerazioni di natura storica e comparativa. Partiamo dalle seconde: ogniqualvolta si riscontri l’irresistibile ascesa di personaggi capaci di cavalcare mediaticamente il malcontento popolare verso la "casta" politica, scatta il riflesso condizionato del paragone con Silvio Berlusconi e il movimento d’opinione da lui fondato nel ‘94. Tale raffronto sconta la grave superficialità insita nell’attribuire le alterne fortune di Forza Italia esclusivamente alle doti di "grande comunicatore" del Cavaliere, con il risultato di vedere nell’informatica di massa un mezzo per dare simili opportunità di proselitismo a qualunque valido promotore di sé – sia esso un Adinolfi, un Capezzone o, per l’appunto, un Grillo. Si tratta più o meno dello stesso infantile materialismo secondo il quale, grazie ai sofisticati rilievi effettuati dalla moderna polizia scientifica, non dovrebbero più esserci "delitti irrisolti". Invece in politica – come in ogni altro ambito dell’agire umano – talenti come il carisma personale, la capacità critica, la persuasività e la credibilità fanno ancora la differenza. Internet rende "solo" possibile trasmetterli più rapidamente che con il megafono, ma non li infonde a chi non li possiede e/o non li sa sviluppare. Pare inoltre che il Beppe nazionale intenda apporre il suo "bollino di garanzia" a tutti coloro i quali domanderanno di candidarsi nelle sue liste civiche. I miei migliori auguri: non appena Berlusconi ebbe compreso quale enorme volume di denaro e grado di ramificazione territoriale richiedesse un simile livello di "capillarità", optò per un agile (ed economico) partito-fisarmonica all’americana. Della serie: alle politiche votate per me "in persona", alle amministrative vi arrangiate e capitalizzate il marchio di fabbrica come vi pare.
Non meno interesse desta poi l’evidente similitudine tra grillismo e fascismo. La portata dei due fenomeni resta sideralmente lontana, beninteso, ma nello stesso senso in cui differiscono il metano e il benzene: composti di diversa pericolosità ottenuti dai medesimi costituenti elementari. Ossia la discesa in piazza del disagio popolare, le risposte sbrigative e restrittive al problema della cagionevole "salute politica" di una nazione, la delega di cospicui poteri decisionali ad autorità di tipo corporativo.
Proprio dal ventennio mussoliniano prende origine il basso profilo (morale, intellettuale, progettuale) della classe dirigente italiana dal secondo dopoguerra a oggi. Ultimo tentativo – autoritario – di mettere l’ottimità borghese ai posti di comando, il suo epilogo nel sangue dissuase definitivamente il ceto professionale e imprenditoriale dall’assumersi responsabilità politiche dirette. Regalando all’Italia la coazione a ripetere lo stanco rituale di adorazione del Salvatore di turno, abile a millantarsi facilmente in grado di formare e proporre team di "ottimati" con un colpo di bacchetta magica.
La malattia infantile della nostra vita politica è tutta qui: demandare integralmente la moralità di una scelta alla Legge o alla Provvidenza, anziché all’incontro tra noi stessi e le leggi o le provvidenze che ci circondano.
Ismael
A qualche giorno di distanza dal dibattito sul posizionamento cardinale del liberismo, sorge nuovamente il dilemma di ripartire ideologicamente una problematica apparentemente "neutra". Detto altrimenti: la moralità delle figure pubbliche è di destra o di sinistra? Mentre però la politica economica liberale instilla il dubbio poiché, sebbene adottata dai due schieramenti in virtù di motivazioni opposte (in estrema sintesi, per la sinistra è giusta in quanto funziona laddove secondo la destra funziona perché è giusta), essa ha ricadute pratiche tendenzialmente invarianti, nel caso dell’etica politica si assiste a una marcata distinzione binaria anche in concreto.
Per una destra coerentemente libera(ta) da scorie socialiste, infatti, è "giusto" rimettere il giudizio sulla moralità dei candidati alla coscienza dei singoli elettori senza clausole restrittive (ovvero espropriative) di sorta. A una sinistra inevitabilmente debitrice dell’assunto utilitarista per cui il beneficio dei "molti" val bene il costo dei "pochi", invece, non può andare bene l’impostazione liberoscambista di cui sopra, che ha spesso dimostrato di "funzionare" ben poco in relazione al fine di purificare l’esercizio della rappresentanza. Di qui l’inveterato uso di subordinare la sostanza morale dei problemi alla forma legale della loro soluzione: se la tal pratica è permessa dalla legge, allora è giusta; se è vietata, diventa automaticamente sbagliata.
Da bravo ripetitore di esprit jacobin, Grillo ritiene abbastanza esplicitamente che sia la legge a dover creare moralità e costume: come al solito, è un’inversione di cause ed effetti a dislocare l’appartenenza ideologica di un proposito politico. Comunque sia, anche il ducetto ligure dovrà avvolgere la sua retorica in un involucro di divieti. Quali? Uno è quello di presentarsi alle elezioni politiche per i condannati in primo grado: una mostruosità tale da conferire alla corporazione italiana dei magistrati il potere di "confermazione passiva" del suffragio popolare. Credo che dire "incostituzionale" sarebbe ancora poco. Un altro prevede di porre un limite massimo di due mandati ai parlamentari: il risultato sarebbe solamente una paurosa accentuazione dello scarso orizzonte temporale che contraddistingue l’azione di soggetti interessati principalmente a essere rieletti ogni quattro-cinque anni. Il terzo e ultimo consiste nella reintroduzione della preferenza ai candidati, con relativo ripristino del mercato bovino da parte dei "padroni dei voti" di democristiana memoria. A poco o nulla vale peraltro opporre – quale esempio di ferrea intransigenza etica di marca tutta liberale – il contesto americano, nel quale è l’elettorato a respingere spontaneamente le personalità dal discutibile quadro biografico.
Eppure, a lato della sbornia giustizialista denominata "grillismo", vanno fatte anche considerazioni di natura storica e comparativa. Partiamo dalle seconde: ogniqualvolta si riscontri l’irresistibile ascesa di personaggi capaci di cavalcare mediaticamente il malcontento popolare verso la "casta" politica, scatta il riflesso condizionato del paragone con Silvio Berlusconi e il movimento d’opinione da lui fondato nel ‘94. Tale raffronto sconta la grave superficialità insita nell’attribuire le alterne fortune di Forza Italia esclusivamente alle doti di "grande comunicatore" del Cavaliere, con il risultato di vedere nell’informatica di massa un mezzo per dare simili opportunità di proselitismo a qualunque valido promotore di sé – sia esso un Adinolfi, un Capezzone o, per l’appunto, un Grillo. Si tratta più o meno dello stesso infantile materialismo secondo il quale, grazie ai sofisticati rilievi effettuati dalla moderna polizia scientifica, non dovrebbero più esserci "delitti irrisolti". Invece in politica – come in ogni altro ambito dell’agire umano – talenti come il carisma personale, la capacità critica, la persuasività e la credibilità fanno ancora la differenza. Internet rende "solo" possibile trasmetterli più rapidamente che con il megafono, ma non li infonde a chi non li possiede e/o non li sa sviluppare. Pare inoltre che il Beppe nazionale intenda apporre il suo "bollino di garanzia" a tutti coloro i quali domanderanno di candidarsi nelle sue liste civiche. I miei migliori auguri: non appena Berlusconi ebbe compreso quale enorme volume di denaro e grado di ramificazione territoriale richiedesse un simile livello di "capillarità", optò per un agile (ed economico) partito-fisarmonica all’americana. Della serie: alle politiche votate per me "in persona", alle amministrative vi arrangiate e capitalizzate il marchio di fabbrica come vi pare.
Non meno interesse desta poi l’evidente similitudine tra grillismo e fascismo. La portata dei due fenomeni resta sideralmente lontana, beninteso, ma nello stesso senso in cui differiscono il metano e il benzene: composti di diversa pericolosità ottenuti dai medesimi costituenti elementari. Ossia la discesa in piazza del disagio popolare, le risposte sbrigative e restrittive al problema della cagionevole "salute politica" di una nazione, la delega di cospicui poteri decisionali ad autorità di tipo corporativo.
Proprio dal ventennio mussoliniano prende origine il basso profilo (morale, intellettuale, progettuale) della classe dirigente italiana dal secondo dopoguerra a oggi. Ultimo tentativo – autoritario – di mettere l’ottimità borghese ai posti di comando, il suo epilogo nel sangue dissuase definitivamente il ceto professionale e imprenditoriale dall’assumersi responsabilità politiche dirette. Regalando all’Italia la coazione a ripetere lo stanco rituale di adorazione del Salvatore di turno, abile a millantarsi facilmente in grado di formare e proporre team di "ottimati" con un colpo di bacchetta magica.
La malattia infantile della nostra vita politica è tutta qui: demandare integralmente la moralità di una scelta alla Legge o alla Provvidenza, anziché all’incontro tra noi stessi e le leggi o le provvidenze che ci circondano.
Ismael
2 commenti:
La crisi della politica si trascina dal crollo del muro di Berlino. Montanelli ci mise subito in guardia dai pericoli del "crollo delle ideologie", perchè sapeva che la politica si sarebbe ridotta ad un puro esercizio di potere. Oggi è così: i due schieramenti fanno finta di scannarsi ma in realtà si assomigliano molto, poichè ciò che li contraddistingue è l'assenza totale di un orizzonte politico moderno. La gente percepisce che qualcosa non va, ed è scontenta, ma giudica in modo viscerale e non riesce a capire le ragioni profonde di questo stallo. Grillo rappresenta appunto quella parte deteriore della protesta, la quale, sebbene sia generata da motivi seri e concreti, avrebbe bisogno di essere risolta su tutt'altro piano da quello populistico/demagogico di un comico. Anche perchè a me pare che Grillo non sia una duce, ma piuttosto un inseguitore di bassi umori di massa.
Non abbiamo bisogno di "grilli parlanti", ma di politici e azioni politiche concreti.
Posta un commento