venerdì 5 ottobre 2007

LIBERALISMO di L. Von Mises

“Se il liberalismo difende la proprietà privata,non lo fa nell’interesse dei proprietari.Esso non vuole conservare la proprietà privataper il motivo che non potrebbe abolirlasenza ledere i diritti dei proprietari.Se esso ritenesse che l’abolizione della proprietà privataè utile nell’interesse della collettività, si batterebbeper la sua abolizione senza alcun riguardoper l’eventuale danno che ne deriverebbe ai proprietari”
“Ai pochi che giudicano l’azione alla luce di norme superiori,e che esigono che anche nell’agire politicosi obbedisca all’imperativo categorico(«Agisci in modo che la massima della tua volontàpossa valere come principio di una legislazione universale, ovverosia che dal tentativo di pensare la tua azionecome legge osservata da tuttinon emerga alcuna contraddizione»), l’ideologia dei partiti di interessi non ha nulla da offrire”
La sovrapposizione dei due virgolettati con cui apro queste brevi note lascia trasparire, in tutta la sua maestosità aporistica, l’involontario paralogismo che attraversa a capitoli alterni l’opera che il grande Von Mises dedicò all’idea politica liberale.Scritto nel 1927 – ossia durante il crepuscolo dell’umanità libera: la notte sarebbe calata di lì a poco –, Liberalismo nacque anche con l’intento di sfidare i trionfanti totalitarismi dell’epoca sul terreno della socialità. Altrimenti non si spiegherebbe il ripetuto richiamo dell’autore allo scivoloso concetto di “interesse collettivo” quale punto d’approdo del liberalismo applicato. Proprio da un contesto storico avido di ideologie competitive sotto il profilo del bene comune origina l’impasse teorica che emerge confrontando il lato “pubblicistico” del libro in esame con i suoi risvolti più strettamente analitici.Dopo un rapido inquadramento introduttivo, il saggio prende in considerazione i fondamenti della politica liberale. Essi, secondo l’asserto di Mises, consisterebbero nelle basi filosofiche gettate dai “padri nobili” dell’utilitarismo britannico, vale a dire David Hume, Jeremy Bentham e John Stuart Mill. Stando ai criteri illustrati nel primo capitolo, il liberalismo sarebbe dunque giusto perché “funziona”: oltre che nella prima delle due citazioni di cui sopra, questa tesi trova conferma nel passo in cui l’autore sostiene che, per dimostrare l’irrazionalità della schiavitù, esiste un solo argomento valido, “e cioè che il lavoro libero è incomparabilmente più produttivo del lavoro effettuato da chi non è libero”. Eppure l’inservibilità metodologica delle postulazioni utilitaristiche, improntate all’empirismo più radicale, si esplica nell’impossibilità di misurare concretamente il benessere individuale e di aggregare tale grandezza mediante sommatoria. La felicità, detto altrimenti, non è una funzione matematica. Senza contare che un’interpretazione rigorosamente soggettiva del principio utilitario – essendo il tornaconto sia la ratio del rispetto di una norma che la ratio della sua violazione – conduce all’anomia, mentre una sua declinazione oggettiva – puntando a massimizzare la somma delle singole utilità – porta al socialismo, ovvero ad anteporre il beneficio delle moltitudini alla felicità dei singoli. In appendice, non a caso Mises chiosa il pensiero di Stuart Mill definendolo “responsabile della disinvolta mescolanza di idee liberali e socialiste che ha portato alla decadenza del liberalismo inglese” e il suo artefice come il “più grande avvocato del socialismo”, al cui cospetto tutti gli altri autori socialisti “quasi scompaiono”. Possibile però che al capostipite della Scuola Austriaca sfuggisse l’influenza esercitata da Bentham su Mill e, precedentemente, da Hume su Bentham? Possibile, poi, che egli ignorasse l’alternativa etico-gnoseologica all’utilitarismo rappresentata dalla tardoscolastica di Salamanca o, per rimanere in più ravvicinato ambito britannico, dal giusnaturalismo lockiano?Nel secondo capitolo, dedicato alla politica economica liberale, Von Mises coglie il punto da un’angolazione diversa ma convergente. Analizzando i caratteri costitutivi dei diversi sistemi economici, l’autore osserva che “in un sistema economico integralmente socialista, [...] non potendo esserci proprietà privata dei mezzi di produzione, non c’è neanche un loro scambio sul mercato, e di conseguenza non possono esserci né prezzi monetari né calcolo monetario”. Un teorema di validità effettiva direttamente proporzionale alla durata dell’intervallo di tempo considerato: in una prospettiva utilitaristica, coerentemente vincolata alle scarse profondità cronologiche delle “preferenze immediate”, diventa addirittura impossibile effettuare un’analisi dinamica delle interazioni economiche. Ed è appunto nel breve termine che l’interventismo produce i suoi illusori risultati. Ecco allora che diventa necessario conferire solidi contenuti morali al concetto di felicità, specificando – come fa Mises stesso – che il liberalismo predica di sacrificarsi per tenere in piedi la società “ora” in vista di guadagni maggiori e permanenti “dopo”. Il comportamento razionale degli individui, in altre parole, si può presupporre solo dopo aver ipotizzato l’universale rispetto di capisaldi etici autoevidenti – perché necessari al funzionamento del sistema che sottendono: l’esigenza di un sistema di assiomi a priori nega quindi le premesse totalmente a posteriori dell’utilitarismo.Il terzo capitolo del libro verte sulla politica estera liberale. Debitore di una concezione “romantica” dei rapporti umani, secondo la quale gli uomini sarebbero naturalmente predisposti alla pacifica cooperazione, Von Mises afferma che non esiste “un’antitesi insuperabile tra gli interessi della nazione e quelli dell’umanità”. Poi, en passant, incappa nell’ennesima negazione implicita dell’utilitarismo ove sostiene che “si può parlare di vera autodeterminazione [nazionale, NdIs] solo se la decisione di ciascuno deriva dalla sua libera volontà e non dalla paura di rimetterci o dalla speranza di guadagnarci”. Infine fa professione di costruttivismo: “Il liberale [...] chiede che l’organizzazione statale trovi la sua prosecuzione e la sua conclusione in una unione politica paritetica di tutti gli Stati in uno Stato mondiale. [...] è per questo che chiede l’istituzione di tribunali e autorità al di sopra degli Stati che assicurino la pace internazionale”. Scadere nell’idealismo tecnocratico, per il quale le istituzioni storico-culturali si possono ricondurre a un piano predeterminato e “verticistico”, è a mio avviso un infortunio teorico madornale, da parte dell’autore comunemente ritenuto il portabandiera del pensiero razionale ma non razionalista. Davvero penosa e inacidita, poi, l’invettiva contro le presunte tare morali del popolo russo lanciata nell’ultimo paragrafo della sezione esteri, nel quale Mises arriva addirittura a sputacchiare su Dostoevskij e Tolstoj, apostrofando per giunta come “nevrastenici” i lettori dei due grandi romanzieri.Nel quarto capitolo, l’ultimo tra quelli “maggiori”, ad ogni modo la trattazione misesiana ha un colpo d’ala che, da solo, vale l’acquisto del saggio. Occupandosi del rapporto tra il liberalismo e i partiti politici, Mises, sebbene indulgendo nuovamente al candido ottimismo in base al quale un sistema “liberalizzato” darebbe luogo a un consesso di buoni samaritani privi di interessi corporativi, contesta alla radice il proposito dell’unità liberale. Liberale – cioè laico – dev’essere semmai il metodo che informa il sistema democratico, al fine di scongiurare la proliferazione di interessi particolari che contraddistingue la politica dei partiti mono-fidelizzati. Il liberalismo negherebbe se stesso, se si riunisse a sua volta in un partito d’interessi. Ecco perché, nei sistemi liberaldemocratici presi a campione dall’autore, “esistono [...] in fondo soltanto due partiti, quello che governa, e quello che vuole governare”. Parole tombali nei confronti di qualsiasi languore proporzionalista.Di un libro che, in fin dei conti, riepiloga il classico programma politico liberale – forse sorvolando un po’ troppo disinvoltamente sulla questione fiscale, a dire il vero – io trattengo la parte che fa capo al secondo dei due virgolettati d’apertura, quella che sposa un liberalesimo che funziona perché è giusto, non viceversa. L’altra, quella utilitarista, dopo essersi resa responsabile del tracollo novecentesco del liberalismo, mi appare logora e datata.
Ismael

1 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Edoardo, buona la tua recensione, ma ti devo fare un appunto... Credo che, senza volerlo, a volte tu scriva in un modo che potrebbe risultare spinoso per chi non la pensa come te, perchè spari con assoluta sicurezza delle frasi forti abbastanza discutibili, come quella secondo cui il liberalismo utilitarista sarebbe un'opzione "logora e datata" responsabile nientemeno che del "tracollo novecentesco del liberalismo". Sai che io la penso diversamente, e non mi ritengo per questo un retrogrado o un ottuso, non fosse altro che per il fatto che mi trovo, con Mises e tanti altri, in buona compagnia. In fondo, io dico solo che forse l'utile è un concetto un pochino più oggettivo di quello di giustizia, nonchè una base più certa per costruire un ordinamento giuridico. In una società aperta a diverse visioni della giustizia, come usare tale concetto per iniziare a scrivere un "contratto sociale"? Infine, devo dirlo: in epoca postmoderna, questa nostra discussione è abbastanza inutile. Sembriamo due austriaci in esilio durante la seconda guerra mondiale, che non avevano un cavolo da fare oltre ad accapigliarsi sui fondamenti teoretici del nodo alla cravatta. L'importante è che siamo tutti d'accordo sulla postulazione dell'esistenza Diritto Naturale. Per il resto, facciamo come le mogli di una volta quando il marito tornava a casa alle tre di notte: non apriamo l'argomento.


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