giovedì 22 novembre 2007

ANTONIO ROSMINI FOR DUMMIES

di Ismael

Per riscattare l’opera di Antonio Rosmini dalla denigratoria esegesi fattane dai gesuiti ci sono voluti appena centocinquant’anni. La beatificazione del prete-filosofo roveretano, celebrata Domenica scorsa, avvia infatti a conclusione una lunga serie di controversie nota come “questione rosminiana”.
La messa all’Indice delle Cinque piaghe della santa Chiesa (1849) si risolse con la completa riabilitazione dell’autore sancita dal decreto Dimittantur (1854), ma il casuismo gesuitico colpisce anche in contumacia post mortem: con l’emanazione del Post Obitum (1888), il Sant’Uffizio si riservò un’ultima parola di condanna nei confronti del sacerdote trentino. Nello specifico, vennero messe alla berlina e sottoposte alla consueta ermeneutica tendenziosa quaranta proposizioni rosminiane, tratte in massima parte dalla Teosofia. Le accuse non mancarono certo di inventiva: quelle di panteismo e di ontologismo furono le più gettonate. Solo nel 1998, quando nella Fides et Ratio Giovanni Paolo II ha incluso Rosmini tra i “maestri del pensare cristiano”, l’odissea postuma di questo “venerabile servo di Dio” si è davvero potuta incamminare verso il recente lieto fine.
Il pensiero del neobeato, in estrema e indegna sintesi, si pose in mezzeria tra l’innatismo e l’empirismo, teorizzando quale fondamento assoluto della conoscenza l’idea di essere. Fungendo da “chiodo metafisico” a cui Rosmini appese tutto il suo sistema filosofico, l’essere esistentivo delineato quale pura intuizione prestò (e presta) il fianco alle critiche mosse dai fautori delle gnoseologie idealiste – come per esempio il sensismo o il soggettivismo: che la teoria rosminiana sia cioè un tautologico castello in aria. Del resto, è noto che l’idealismo pretende di ricondurre la metafisica, l’etica e l’estetica a un “denominatore ontologico comune” (l’Io) postulando – ahilui – la subalternità del “fatto” all’atto. Donde (e soprattutto perché) quell’atto tragga i presupposti del giudizio di valore che lo sostanzia, però, rimane un mistero.
Per Rosmini, invece, l’essere ideale è l’unica precondizione innata alla possibilità di accordare soggetti e predicati – cioè, in ultima istanza, alla facoltà di esprimere giudizi morali. Detto altrimenti: l’idea di essere è l’unico elemento cognitivo che non si predica di nulla ma di cui tutto si predica.
Un po’ meno convincenti appaiono tuttavia le commistioni con la teologia esibite dalla filosofia rosminiana. Innanzitutto la critica all’illuminismo kantiano, con cui il roveretano intese argomentare che la ragione umana è oggettiva soprattutto in quanto emanazione divina. Dal basso del mio minimalismo, a sostegno dell’oggettività del “lume” trovo più che sufficiente la sua universalità. Di poi viene la dimostrazione dell’esistenza di Dio, vera e propria ossessione ricorrente del sapere speculativo: secondo Rosmini, poiché l’essere ideale definisce una potenzialità infinita, esiste necessariamente una sua attuazione parimenti infinita sul piano dell’essere reale. Una deduzione piuttosto ultracogitata, diciamo ridondante.
Non meno perplessità destano le posizioni politiche difese dal venerabile sacerdote nelle more del suo contesto storico di appartenenza. Il programma di confederazione italiana degli stati preunitari sostenuto dal filosofo, seppure teoricamente inoppugnabile nelle premesse, manifesta pesanti pregiudiziali di fattibilità istituzionale se si considera che, al vertice dell’organismo, i neoguelfi immaginavano di far assurgere il papa-re. Con effetti presumibilmente dirompenti sulla tenuta politica del nuovo stato (si pensi solamente a quanti “conflitti di attribuzione” sarebbero sorti tra il papato e la monarchia sabauda). Dovendo proprio unificare l’Italia, l’unica soluzione realistica era rassegnarsi o all’interdizione dei cattolici dall’elettorato attivo o al modello concordatario: entrambe le alternative sono state poi percorse, coi risultati che ben conosciamo.
Ma il miglior Rosmini è dato senz’altro dal giusfilosofo liberista. Avversario dell’utilitarismo e del positivismo giuridico, egli giunse con largo anticipo su Isaiah Berlin alla formulazione negativa del concetto di libertà “da” (anziché “di”). Fu precursore del principio di sussidiarietà (lo Stato “faccia solo quello che i cittadini non possono fare”), dello slogan “No taxation without representation” (concepì infatti un sistema elettorale a suffragio “pesato” per impedire a chiunque di votare su come spendere i soldi altrui) e dell’antiassistenzialismo (“la beneficenza governativa può riuscire, anziché di vantaggio, di grave danno, non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende beneficare. Ben sovente è crudeltà anche perché dissecca le fonti della beneficenza privata”). In particolare, convinto com’era che l’essere ideale racchiuso in ciascuna individualità fosse un principio illimitato e intangibile, Rosmini assegnò alla persona la titolarità di sorgente – e non di soggetto – del diritto e alla proprietà privata il ruolo di controprova universale dell’attitudine “subcreatrice” dell’uomo. Idee che lo indussero a rifiutare nettamente ogni forma di contrattualismo, in cui prevale la concezione della proprietà come conseguenza delle leggi civili, a tutto vantaggio dell’ottica giusnaturalista secondo la quale, all’opposto, lo stato rimane legittimo fintantoché non lede il diritto alla proprietà privata.
Più che dei liberisti in senso stretto, a mio avviso, il beato Antonio Rosmini diventerà il santo patrono dei realisti e degli anti-positivisti. Ossia di tutti coloro i quali, per ironia dei corsi storici nostrani, si sono guadagnati la reputazione di liberali “atipici”.

Per iniziare a saperne di più:

Alberto Mingardi: A Sphere Around the Person: Antonio Rosmini on Property e Antonio Rosmini, santo patrono dei mercatisti
Rosmini.it: Cosa si intende per “questione rosminiana”
Filosofico.net: Antonio Rosmini – La vita, le opere e la formazione culturale

5 commenti:

Anonimo ha detto...

"La beneficenza governativa può riuscire, anziché di vantaggio, di grave danno, non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende beneficare. Ben sovente è crudeltà anche perché dissecca le fonti della beneficenza privata"

Io l'ho sempre pensato. Dovrebbero rifletterci, quei cattolici antimercatisti e antiliberali, prima di confondere CARITA' con SOLIDARIETA'.

"Solidarietà" è un concetto politico, nel senso che riguarda un aspetto puramente materiale della convivenza fra individui. Che sia spontanea o coatta, essa non muta la sua natura politica e amorale.

La "carità", al contrario, è un atto d'amore (caritas) che secondo la teologia cristiana ci purifica e ci avvicina a Dio. Soltanto di questa, quindi, dovrebbe occuparsi la Chiesa, non di solidarietà.

Il vizietto del temporalismo, però, è sempre rimasto in vita, e la Chiesa spesso fa finta di non comprendere le distinzione che ho evidenziato...

Federico Zuliani ha detto...

Sottoscrivo in pieno il commento "francescano"!

Anonimo ha detto...

Infatti, tra le "cinque piaghe" che gli valsero la messa all'Indice, Rosmini incluse proprio la carità secolare che la Chiesa, appoggiandosi al potere costituito, talvolta sollecita presso lo Stato.
Col risultato di scristianizzare e a-moralizzare la carità medesima: lo stesso discorso vale per la solidarietà sociale imposta dalla tassazione, ovviamente.

Anonimo ha detto...

molto intiresno, grazie

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu


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