In questi giorni, in qualche convegno e sulle pagine di liberal, si dibatte del Sessantotto, ricorrendone il quarantennale. Al riguardo c’è chiaramente una certa disparità di vedute, specie negli schematici confronti destra – sinistra. Sappiamo bene cosa ne pensa chi era “nero” e chi “rosso” in quegli anni, ma qual è la prospettiva liberale nei confronti del ’68?
Innanzitutto, bisogna sottolineare che, come spesso accade, in Italia vi è sempre una sorta di eterogenesi dei fini nei grande avvenimenti, ed il Sessantotto non è stato immune da questa “patologia”. Se infatti dall’altra parte dell’Atlantico o in Francia (per guardare più vicino a noi), la “stagione del cambiamento” ha portato a mutamenti positivi e rilevanti a livello socio–politico, in Italia si è trattato soprattutto di una “rivoluzione parlata” e “mostrata” che non ha certo migliorato il nostro Paese (anzi!).
E così, mentre nasceva il “6 politico” le “baronìe universitarie” hanno continuato ad imperversare, la donna si è “liberata” dalla “padronìa del marito” per divenire prigioniera del proprio corpo, del proprio apparire, riducendo la sua emancipazione ad un mero “potere contrattualistico” del sesso, regalandoci come “figlie delle figlie del ‘68” veline sculettanti, lolite in serie, ombelichi e culi al vento e zero consapevolezza della vita. Insomma, la “generazione Moccia”, così superficiale, moscia ed insipida, affonda in questa falsa rivoluzione le proprie radici.
E la colpa dei liberali (ma anche della “giovane destra”) è stata quella di non saper trovare il modo per inserirsi in questo contesto e “calmierarlo”. In un ardito paragone con la Rivoluzione Francese, si potrebbe dire che sono mancati i “Girondini”, cioè coloro che, pur condividendo la rivoluzione, erano consapevoli che le degenerazioni portano solo ad altre degenerazioni.
La “gioventù moderata” avrebbe dovuto trovare la forza e la capacità di incanalare l’iniziale (e magari giusta) spinta propulsiva che veniva dall’America (intesa, forse, più come luogo “ideale” che geografico), per migliorare un’Italia gerontocratica (già allora come oggi) impedendo che ne venissero ribaltati anche importanti e sacrosanti pilastri. Invece scelse o di appoggiare indiscriminatamente i “giacobini” o di assumere posizioni “reazionarie” che non potevano essere capite dal mondo giovanile dei “senza tessera”.
Tirando le somme, viene spontaneo dire che serve a poco, oggi, tentare di storicizzare criticamente il ’68 (seppure sia una buona idea tentare di smitizzarlo), ma che sarebbe stato sicuramente più giusto e salutare moderarlo da dentro per non farlo impazzire ed impazzare là fuori.
Innanzitutto, bisogna sottolineare che, come spesso accade, in Italia vi è sempre una sorta di eterogenesi dei fini nei grande avvenimenti, ed il Sessantotto non è stato immune da questa “patologia”. Se infatti dall’altra parte dell’Atlantico o in Francia (per guardare più vicino a noi), la “stagione del cambiamento” ha portato a mutamenti positivi e rilevanti a livello socio–politico, in Italia si è trattato soprattutto di una “rivoluzione parlata” e “mostrata” che non ha certo migliorato il nostro Paese (anzi!).
E così, mentre nasceva il “6 politico” le “baronìe universitarie” hanno continuato ad imperversare, la donna si è “liberata” dalla “padronìa del marito” per divenire prigioniera del proprio corpo, del proprio apparire, riducendo la sua emancipazione ad un mero “potere contrattualistico” del sesso, regalandoci come “figlie delle figlie del ‘68” veline sculettanti, lolite in serie, ombelichi e culi al vento e zero consapevolezza della vita. Insomma, la “generazione Moccia”, così superficiale, moscia ed insipida, affonda in questa falsa rivoluzione le proprie radici.
E la colpa dei liberali (ma anche della “giovane destra”) è stata quella di non saper trovare il modo per inserirsi in questo contesto e “calmierarlo”. In un ardito paragone con la Rivoluzione Francese, si potrebbe dire che sono mancati i “Girondini”, cioè coloro che, pur condividendo la rivoluzione, erano consapevoli che le degenerazioni portano solo ad altre degenerazioni.
La “gioventù moderata” avrebbe dovuto trovare la forza e la capacità di incanalare l’iniziale (e magari giusta) spinta propulsiva che veniva dall’America (intesa, forse, più come luogo “ideale” che geografico), per migliorare un’Italia gerontocratica (già allora come oggi) impedendo che ne venissero ribaltati anche importanti e sacrosanti pilastri. Invece scelse o di appoggiare indiscriminatamente i “giacobini” o di assumere posizioni “reazionarie” che non potevano essere capite dal mondo giovanile dei “senza tessera”.
Tirando le somme, viene spontaneo dire che serve a poco, oggi, tentare di storicizzare criticamente il ’68 (seppure sia una buona idea tentare di smitizzarlo), ma che sarebbe stato sicuramente più giusto e salutare moderarlo da dentro per non farlo impazzire ed impazzare là fuori.
1 commenti:
Calmierare il '68? E' una parola... A quall'epoca pronunciare la parola "capitalismo" equivaleva al suicidio violento. In nessun paese occidentale il '68 ha avuto connotazioni marxiste come in Italia. In Francia, ad esempio, grazie all'asilo concesso ai rifugiati dell'Unione Sovietica, c'era già stato un ampio dibattito che aveva fatto entrare nelle coscienze dei cittadini l'idea del fallimento di quella dottrina. Non so perchè, ma il socialismo in Italia ha sempre fatto presa più che in altri Stati, e il '68 ne è stata la dimostrazione. In quella contestazione non ci fu NULLA di liberale e NESSUNA conquista sociale. I sessantottini furono solo, come disse Pasolini, dei figli di papà svogliati nello studio che lanciavano sassi contro i veri lavoratori, cioè i poliziotti, spacciando questi atti vandalici per una rivoluzione.
Per fare una rivoluzione servono invece le idee: cosa si legge ancora oggi degli "ideologi" dell'epoca? NIENTE. Non è rimasto nulla.
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