Uno dei princìpi fondanti della modernità può essere ben rappresentato con la metafora di Zenone, nella quale il discepolo di Parmenide descrisse l’essere come “identità di sé a sé”. È lo stesso concetto che, poco più avanti, sarà ripreso prima da Anassagora e poi da Democrito, e che finirà per diventare il pensiero dominante ai giorni nostri; l’idea, cioè, che l’essere sia sempre identico a sé stesso, immobile ed immutabile, e perciò costituito di una sostanza indifferenziata.
Contrariamente ad altri “classici” come Platone, Aristotele e Parmenide, i quali fecero propria la teoria del divenire e cercarono di spiegarla attraverso la riflessione sul non essere (inteso come principio delle differenze) Zenone arrivò ad affermare l’inesistenza del non essere, e così anche delle differenze e del divenire. Questo, sulla scorta dell’argomentazione che le differenze del mondo sarebbero illusorie, perché riguarderebbero solo un profilo quantitativo dell’essere, e non una sua qualità. Secondo questa teoria, io sarei diverso (poniamo l’esempio) dalla scimmia solo quantitativamente (più atomi, più geni, più intelligenza, più funzioni biologiche ecc...) mentre non esisterebbero differenze qualitative se non nell’apparenza.
Se ci pensiamo, questa mentalità è anche alla base delle scienze analitiche: infatti io posso misurare le cose, sommarle, moltiplicarle solo se penso che la sostanza che le compone sia omogenea. Zenone travisò però in questo modo l’insegnamento del suo maestro Parmenide, che non aveva assolutamente inteso negare l’esistenza delle differenze e del divenire quando scrisse “del non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo”, perché il non essere a cui si riferiva era un ipotetico principio contrapposto all’essere, sicchè dal suo punto di vista era corretta la precisazione. Ma il non essere si può pensare anche come concetto relativo, non necessariamente contrapposto all’essere, cioè un “non essere qualcosa”: è questo infatti il principio delle differenze. Io sono me stesso in quanto non sono qualcos’altro, una macchina è tale in quanto non è una casa ecc...
Platone specificò meglio il concetto, e scrisse: “Si potrebbe dire che l’essere in un certo modo non è, ed il non essere in un certo modo è”. Pensate al Tao, con le sue due forze contrapposte che si compenetrano e fondano la propria esistenza l’uno sull’altro: per l’essere è la stessa cosa, una sostanza che continuamente muta e si differenzia in un gioco di luce ed ombra, caldo e freddo, moto e quiete, vita e morte.
Il problema del divenire ha però creato dei forti mal di testa ai filosofi classici: come si può descrivere qualcosa che, mentre ne parlo, muta incessantemente? Anzi, essa è il principio stesso della mutazione, del cambiamento, del tempo che scorre. E allora, come possiamo riflettere sul suo funzionamento? Ce lo dice Aristotele, attraverso l’utilizzo delle utilissime categorie filosofiche di potenza e atto, che cercherò di spiegare brevemente e che mi serviranno per analizzare il caso dell’embrione umano da una prospettiva prima ontologica e poi etica.
Sappiamo che qualcosa è “in potenza” quando ha la possibilità di trasformarsi in qualcos’altro, e l’atto è appunto questo “altro”. Ad esempio, possiamo dire che l’uovo è una gallina in potenza. Ora, dato che la potenza è sempre “potenza di qualcosa”, dobbiamo convenire che, da un punto di vista logico, l’atto venga sempre prima della potenza, in quanto la caratterizza. Volendo, in questo modo potremmo dare risposta alla vexata quaestio se sia nato prima l’uovo o la gallina: è nata prima la gallina, perché quest’ultima non ha bisogno di altro principio per determinarsi, mentre l’uovo è sempre “uovo di... qualcosa”. La gallina, almeno concettualmente, precede sempre l’uovo, il quale altrimenti rimarrebbe privo di determinazione. Sarebbe la potenza di nulla, e quindi un nulla esso stesso.
Ma il concetto di potenza è troppo vago: bisogna distinguere ciò che è in potenza passiva da ciò che è in potenza attiva. La prima può trasformarsi in atto se interviene un principio esterno (ad esempio un blocco di marmo può diventare una statua se interviene un artista) mentre la seconda è tale se contiene già in sé il principio della propria generazione. Esempi di potenzialità attiva sono il seme, l’uovo fecondato e l’embrione, che possiedono un endogeno principio di generazione della vita. Dobbiamo notare a questo punto che ciò è un vero e proprio mistero dell’universo: qualcosa che autonomamente si fa spazio nella vita, mosso da una forza che va in una precisa direzione.
Ma questa teoria è stata utilizzata, con faciloneria, da chi ha sostenuto che siccome l’embrione è un uomo in potenza, allora (per esclusione!?) non è uomo in atto. Ciò e falso, per il motivo che abbiamo spiegato prima: potenza e atto rappresentano la dinamica di una forza, non due momenti fissi separati fra loro. Infatti, non si può pensare all’uno senza l’altro. Essi esprimono il concetto sfuggente di divenire, e sarebbe un errore interpretarli in maniere fissista. L’embrione dunque non è “qualcosa che diventerà uomo”, ma un uomo che sta gradualmente sviluppando le proprie potenzialità, esattamente come tutti noi in qualsiasi momento della nostra vita.
Dunque, mi pare più aderente alla teoria Aristotelica la tesi secondo cui l’embrione rappresenterebbe un fenomeno vitale non separabile concettualmente dall’idea di “uomo”. Per questa via è chiaro che le distinzioni fra le parole embrione, feto, bambino e uomo acquistano un significato ininfluente da un punto di vista etico, perché rappresentano tutte momenti diversi di uno stesso fenomeno. Se vi facessi vedere una mia foto di quando avevo dieci anni, direste che quello non ero io? Credo di no, e quindi converrete anche che ero io quell’embrione di pochi giorni che cresceva nel grembo di mia madre ventiquattro anni fa.
L’impostazione sensista, che vorrebbe una soglia “quantitativa” oltre la quale si possa dire che un feto è meritevole di tutela (ad esempio perché capace di sensazioni, emozioni, pensieri ecc) è da rigettare in quanto noi non possiamo pensare di disporre di una vita (e notate che “vita” è un concetto che implica necessariamente un divenire) nemmeno se pensiamo che questa vita sia incapace di provare sofferenza.
Questo è un passaggio importante, perché voglio sottolineare che per me la morale non è, come pretendeva Kant, un insieme di precetti che si risolvono (banalizzando) in un “non far male a nessuno”, ma un modo di affrontare l’esistenza secondo giustizia. Può darsi infatti che una cosa non faccia male a nessuno, ma che essa sia parimenti ingiusta. Ad esempio, se io tradissi la mia ragazza e nessuno venisse mai a saperlo avrei compiuto ugualmente un’azione moralmente censurabile. Credo che per l’aborto e le altre “questioni etiche” ci sia lo stesso problema: l’imperativo categorico non ci viene in aiuto, così perdiamo ogni certezza e non sappiamo da che parte affrontare le questioni. In questi casi, io credo che la prudenza sia l’unico atteggiamento intelligente, specialmente se abbiamo a che fare con il mistero della vita.
Contrariamente ad altri “classici” come Platone, Aristotele e Parmenide, i quali fecero propria la teoria del divenire e cercarono di spiegarla attraverso la riflessione sul non essere (inteso come principio delle differenze) Zenone arrivò ad affermare l’inesistenza del non essere, e così anche delle differenze e del divenire. Questo, sulla scorta dell’argomentazione che le differenze del mondo sarebbero illusorie, perché riguarderebbero solo un profilo quantitativo dell’essere, e non una sua qualità. Secondo questa teoria, io sarei diverso (poniamo l’esempio) dalla scimmia solo quantitativamente (più atomi, più geni, più intelligenza, più funzioni biologiche ecc...) mentre non esisterebbero differenze qualitative se non nell’apparenza.
Se ci pensiamo, questa mentalità è anche alla base delle scienze analitiche: infatti io posso misurare le cose, sommarle, moltiplicarle solo se penso che la sostanza che le compone sia omogenea. Zenone travisò però in questo modo l’insegnamento del suo maestro Parmenide, che non aveva assolutamente inteso negare l’esistenza delle differenze e del divenire quando scrisse “del non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo”, perché il non essere a cui si riferiva era un ipotetico principio contrapposto all’essere, sicchè dal suo punto di vista era corretta la precisazione. Ma il non essere si può pensare anche come concetto relativo, non necessariamente contrapposto all’essere, cioè un “non essere qualcosa”: è questo infatti il principio delle differenze. Io sono me stesso in quanto non sono qualcos’altro, una macchina è tale in quanto non è una casa ecc...
Platone specificò meglio il concetto, e scrisse: “Si potrebbe dire che l’essere in un certo modo non è, ed il non essere in un certo modo è”. Pensate al Tao, con le sue due forze contrapposte che si compenetrano e fondano la propria esistenza l’uno sull’altro: per l’essere è la stessa cosa, una sostanza che continuamente muta e si differenzia in un gioco di luce ed ombra, caldo e freddo, moto e quiete, vita e morte.
Il problema del divenire ha però creato dei forti mal di testa ai filosofi classici: come si può descrivere qualcosa che, mentre ne parlo, muta incessantemente? Anzi, essa è il principio stesso della mutazione, del cambiamento, del tempo che scorre. E allora, come possiamo riflettere sul suo funzionamento? Ce lo dice Aristotele, attraverso l’utilizzo delle utilissime categorie filosofiche di potenza e atto, che cercherò di spiegare brevemente e che mi serviranno per analizzare il caso dell’embrione umano da una prospettiva prima ontologica e poi etica.
Sappiamo che qualcosa è “in potenza” quando ha la possibilità di trasformarsi in qualcos’altro, e l’atto è appunto questo “altro”. Ad esempio, possiamo dire che l’uovo è una gallina in potenza. Ora, dato che la potenza è sempre “potenza di qualcosa”, dobbiamo convenire che, da un punto di vista logico, l’atto venga sempre prima della potenza, in quanto la caratterizza. Volendo, in questo modo potremmo dare risposta alla vexata quaestio se sia nato prima l’uovo o la gallina: è nata prima la gallina, perché quest’ultima non ha bisogno di altro principio per determinarsi, mentre l’uovo è sempre “uovo di... qualcosa”. La gallina, almeno concettualmente, precede sempre l’uovo, il quale altrimenti rimarrebbe privo di determinazione. Sarebbe la potenza di nulla, e quindi un nulla esso stesso.
Ma il concetto di potenza è troppo vago: bisogna distinguere ciò che è in potenza passiva da ciò che è in potenza attiva. La prima può trasformarsi in atto se interviene un principio esterno (ad esempio un blocco di marmo può diventare una statua se interviene un artista) mentre la seconda è tale se contiene già in sé il principio della propria generazione. Esempi di potenzialità attiva sono il seme, l’uovo fecondato e l’embrione, che possiedono un endogeno principio di generazione della vita. Dobbiamo notare a questo punto che ciò è un vero e proprio mistero dell’universo: qualcosa che autonomamente si fa spazio nella vita, mosso da una forza che va in una precisa direzione.
Ma questa teoria è stata utilizzata, con faciloneria, da chi ha sostenuto che siccome l’embrione è un uomo in potenza, allora (per esclusione!?) non è uomo in atto. Ciò e falso, per il motivo che abbiamo spiegato prima: potenza e atto rappresentano la dinamica di una forza, non due momenti fissi separati fra loro. Infatti, non si può pensare all’uno senza l’altro. Essi esprimono il concetto sfuggente di divenire, e sarebbe un errore interpretarli in maniere fissista. L’embrione dunque non è “qualcosa che diventerà uomo”, ma un uomo che sta gradualmente sviluppando le proprie potenzialità, esattamente come tutti noi in qualsiasi momento della nostra vita.
Dunque, mi pare più aderente alla teoria Aristotelica la tesi secondo cui l’embrione rappresenterebbe un fenomeno vitale non separabile concettualmente dall’idea di “uomo”. Per questa via è chiaro che le distinzioni fra le parole embrione, feto, bambino e uomo acquistano un significato ininfluente da un punto di vista etico, perché rappresentano tutte momenti diversi di uno stesso fenomeno. Se vi facessi vedere una mia foto di quando avevo dieci anni, direste che quello non ero io? Credo di no, e quindi converrete anche che ero io quell’embrione di pochi giorni che cresceva nel grembo di mia madre ventiquattro anni fa.
L’impostazione sensista, che vorrebbe una soglia “quantitativa” oltre la quale si possa dire che un feto è meritevole di tutela (ad esempio perché capace di sensazioni, emozioni, pensieri ecc) è da rigettare in quanto noi non possiamo pensare di disporre di una vita (e notate che “vita” è un concetto che implica necessariamente un divenire) nemmeno se pensiamo che questa vita sia incapace di provare sofferenza.
Questo è un passaggio importante, perché voglio sottolineare che per me la morale non è, come pretendeva Kant, un insieme di precetti che si risolvono (banalizzando) in un “non far male a nessuno”, ma un modo di affrontare l’esistenza secondo giustizia. Può darsi infatti che una cosa non faccia male a nessuno, ma che essa sia parimenti ingiusta. Ad esempio, se io tradissi la mia ragazza e nessuno venisse mai a saperlo avrei compiuto ugualmente un’azione moralmente censurabile. Credo che per l’aborto e le altre “questioni etiche” ci sia lo stesso problema: l’imperativo categorico non ci viene in aiuto, così perdiamo ogni certezza e non sappiamo da che parte affrontare le questioni. In questi casi, io credo che la prudenza sia l’unico atteggiamento intelligente, specialmente se abbiamo a che fare con il mistero della vita.
9 commenti:
Dire che l'embrione è un uomo che tsa sviluppando le proprie potenzialità è una frase estremamente generica, la genetica e la biologia mostrano l'influenza di miliardi di fattori diversi, se tu sei la stessa cosa dell'embrione che eri 24 anni fa, cià dovrebbe significare che 2 gemelli omozigoti, che si sono sviluppati a partire da un singolo embrione dovrebbero essere considerati la stessa persona, il che è palesemente assurdo, chiunque conosca una coppia di gemellli vede che le differenze spesso sono significative, e le somiglianze soprattutto esteriori.
In realtò penso che noi non siamo mai la stessa persona nel tempo, siamo come il fiume di Eraclito.
Ma Eraclito diceva il contrario, e cioè che il fiume è sempre tale nonostante il divenire, perchè in esso c'è un principio.
La stessa cosa è per l'uomo, che è sempre tale nonostante la crescita, lo sviluppo, l'invecchiamento ecc.
Il caso dei gemelli omozigoti è particolare, perchè ci dice che due persone diverse possono originare da uno stesso embrione, il quale dunque contiene in sè il principio della generazione di due soggetti distinti. Ma la sostanza del discorso non cambia, almeno dal punto di vista etico.
La frase esatta di Eraclito è "nello stesso fiume non è possibile entrare due volte" nell'interpretazione di G.Colli il fiume stesso non esiste è solo un interpretazione che diamo alla nostra sensazione quando vi entriamo, questo intendevo nel paragone, la vita stessa è l'uomo, l'embrione, le cellule somatiche, è un universo di cose inscindibili, a cui noi possiamo dare nomi e identificare, ma in cui ogni discriminazione come quella tra uomo, embrione, cellula è un scelta etica che io peso debba essere frutto della responsabilità personale, e non di un imperativo oggettivamente inevitabile.
Di nuovo l'idea kantiana di una morale che sta solo dentro di noi... Io non posso essere d'accordo con questa impostazione, e soprattutto non la considero aderente alla concezione classica presocratica.
La frase che hai citato è decontestualizzata. Espressa così, sembra che voglia evocare un'idea tipicamente moderna e fissista, in contrasto con la teoria dell'archè e del divenire. Ma se andiamo a leggerci tutto il discorso eracliteo sul "Logos" ci accorgiamo che l'attività del Principio (Archè) è la stessa dell'intelligenza e della parola: quella di fare di un insieme un intero custodendone le differenze costitutive.
Sicchè non mi pare giustificato distinguere, come hai proposto tu, il piano ontologico da quello "percettivo" intellettuale, almeno finchè parliamo di Eraclito.
il caso dei gemelli, lungamente dibattuto in letteratura, dimostra che, vigente il principio di individuazione, esso opera a partire da un momento T+x (dove T è il momento del concepimento). Sostenere che un individuo è tale anche se può dividersi è difatti una contraddizione in termini. (Simmetrico è il fenomeno della fusione di più zigoti: da più zigoti se ne forma uno solo). Naturalmente fa un po' sorridere, specie da parte di persone che si definiscono liberali, questa applicazione della metasifica aristotelica o anche presocratica a queste questioni. E' il frutto di una petizione di principio a favore dell'essenzialismo, mentre le alternative comprendono, oltre al "sensismo" (termine usato qui a sproposito) proprio la precedenza dell'etica sulla metafisica che è il nerbo del pensiero kantiano (e in generale del cristianesimo riformato europeo). Che la morale sia kantianamente autonoma non significa che essa non segua leggi oggettive. Semplicemente che, nel rispetto della legge di Hume, non pretende di trarre la sua razionalità dalla realtà empirica. Qual è l'argomento di Aristotele contro l'uccisione? Che io sappia non c'è. E se uccidere non è di per sé male, come non è la è la schiavitù, che importanza ha se l'embrione è un essere umano o no? E d'altro canto, l'identificazione ontologica dell'ente "essere umano" è condizione necessaria e sufficiente per renderlo oggetto di ragionamento morale? Gli animali, sono moralmente cose? Un genotipo gravemente disordinato ma ancora riconducibile al genoma "homo sapiens" va trattato come uno sano anche se non ha la "potenza attiva" (entelècheia) di diventare atto?
R
Aristotele condannava l'omicidio sulla scorta di due argomentazioni piuttosto conosciute.
La prima è che l'uomo è un animale che necessita di intersoggettività, di scambio, di rapporto con l'altro uomo, e l'omicidio comporta invece isolamento (non solo nei confronti dell'uomo assassinato, ma anche del resto della società che non accetterà quell'azione).
La seconda è che la vita non appartiene all'uomo, che non ne può disporre, ma agli dèi. E con dèi intendiamo, anche metaforicamente, quelle forze che interpretano l'archè e il logos, cioè i principi dell'universo nella sua totalità. Loro hanno creato la vita, e solo loro ne possono disporre.
Se queste argomentazioni ti fanno sorridere, è un fatto tuo personale. Io, al contrario, ne sono molto interessato.
Poi io non ho mai detto che che un individuo è tale anche se può dividersi, perciò tutto il tuo discorso a seguire non lo posso considerare come argomentazione contraria al mio post... Io ho solo detto innanzi tutto che la vita implica un divenire, e poi che l'embrione è l'inizio di quel divenire. Non cambia nulla se un embrione è capace di formare due, tre o quattro vite, sempre vite da rispettare sono.
Mi sembra che questa interpretazione misticheggiante di Aristotele non trovi fondamento nei testi. Gli dei forze che interpretano... bah e questo dove sarebbe, nell'Etica a Nicomaco? La concezione dell'uomo come zoon politikon non c'entra niente, visto che non ha portata universale. La maggioranza degli uomini (e tutte le donne) sono "strumenti parlanti", assimilabili agli animali: la loro segregazione o anche eliminazione non intacca affatto la natura pienamente umana del cittadino maschio e possidente. Unico limite: l'esercizio della virtù, cioè della moderazione.
Lasciam perdere puer quel che segue.
R
Platone disse: "Quello che viene espresso nei misteri, che noi siamo come chiusi in una custodia e che, perciò, non dobbiamo liberarcene o fuggire, mi sembra un profondo pensiero non facile da penetrare. Ma questo, almeno, mi sembra ben detto: che sono gli dèi quelli che si prendono cura di noi, e che noi siamo in possesso degli dèi"
Aristotele sottoscrisse questo pensiero, e si inserì nel solco della stessa tradizione filosofica. Per capire questi filosofi bisogna avere dei riferimenti piuttosto ampi, altrimenti li si travisa (vedi discorso su Eraclito nei commenti precedenti). Molti di loro, tra cui proprio Aristotele, continuarono il discorso filosofico di chi li precedette, e perciò si occuparono solo delle questioni che ritennero irrisolte dai maestri. Quindi non possono essere studiati da soli, separatamente, perchè il loro pensiero non è SISTEMATICO. La sistematicità è una concezione tipicamente moderna...
Bell'articolo. Davvero l'ho apprezzato molto. Non sempre concordo sulle posizioni di Francesco, ma questa sua argomentazione è davvero piaciuta.
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