In occasione dei rispettivi discorsi di accettazione della candidatura alla Casa Bianca, Barack Obama e John McCain si sono scambiati il personaggio pubblico da incarnare, con relativa cifra politica di sostegno. Il senatore dell’Illinois si è cimentato nel ruolo di analista circostanziato, dettagliando tecnicalità e arrivando perfino a snocciolare dati numerici. Il vecchio ex pilota da combattimento si è invece scoperto animale da comizio, nel toccare più volte tasti emozionali con i toni da predicatore che sinora avevano contraddistinto il suo avversario.
I due candidati hanno esibito una biografia avvincente ed efficace nel consacrare entrambi alla piena realizzazione di sé: è puro e semplice protestantesimo applicato. Nei contesti riformati come quello americano, infatti, l’uomo terreno è mosso da impulsi negativi, che ne fanno “naturalmente” inclinare l’agire verso il male. Quindi, perduta ogni speranza di giustificazione tramite le opere, rimane solo il successo mondano a testimoniare la predestinazione alla salvezza per il “dopo”. Logico allora che le proprie fortune vadano presentate come credenziali di affidabilità e di moralità, nonché dipinte come fulgide esemplificazioni del sogno americano – la costruzione e il mantenimento di un sistema politico in cui essere liberi di lasciarsi agglutinare dal proprio destino individuale. Obama ha raccontato i sacrifici della madre e della nonna, i suoi studi severi, l’avventura politica al servizio della giustizia sociale; McCain ha rievocato a lungo la cattività in Vietnam e le torture subite laggiù, quando la vicinanza dei commilitoni lo fece recedere dal suo spavaldo egocentrismo giovanile.
Le analogie tra i contendenti, a dispetto del luogo comune che vuole Democratici e Repubblicani gemelli eterozigoti in competizione di facciata, si fermano alla comune radice teologica di cotanta esposizione biografica. Pur non essendo similitudini di poco conto, vista la condivisione di valori portanti che implicano, esse lasciano spazio a una grande varietà di contrapposizioni nel merito.
Sul fronte economico, innanzitutto: mentre McCain propone la classica ricetta liberista (“Io manterrò bassa la pressione fiscale, e laddove possibile la ridurrò. [...] Io mi impegnerò per l’apertura di nuovi mercati per i nostri beni e servizi. [...] Io taglierò la spesa pubblica. [...] I miei tagli alle tasse creeranno nuovi posti di lavoro”), Barack Obama punta su un Big Government assistenzialista di stampo quasi rooseveltiano. Pur ammettendo che “il Governo non può risolvere tutti i nostri problemi”, infatti, manca solo che il candidato democratico assegni a Washington perfino il compito di “spegnere la televisione e far fare i compiti ai bambini”. Per quanto riguarda pressoché tutto il resto, l’intermediazione statale garantisce un valore aggiunto inarrivabile: nel “proteggerci dal male e provvedere a un’educazione dignitosa per ogni bambino; mantenere pulita l’acqua e sicuri i giocattoli; investire in nuove scuole e in nuove strade e in nuova scienza e tecnologia” lo Stato sembra proprio non avere rivali.
Di là dalle molte inesattezze contenute in buona o mala fede nel suo intervento (vedi qui), nel complesso Obama si avvita in un paradosso ideologico meritevole di una piccola riflessione a margine. Dopo essersi preso a modello vivente della “promessa americana” e aver ripercorso tutte le tappe della sua esemplare storia di perseveranza premiata, egli indulge infatti alla demagogia retorica del protezionismo contro il mercato globale e del mutualismo fiscalmente indotto contro la logica del “you’re on your own”. Come se il probabile prossimo presidente USA si reputasse uno dei pochi privilegiati in grado di migliorare autonomamente il proprio destino – come cioè se la tanto sbandierata “promessa” della libertà fosse nella stragrande maggioranza dei casi troppo rischiosa, per poter essere anteposta alla giustizia sociale una volta scesa dal palcoscenico comiziale. Questa ipocrisia fa sorgere il sospetto che “cambiare” l’America significhi in buona sostanza europeizzare la “responsabilità reciproca” a scapito della “responsabilità individuale”.
Passando a volo radente sulle questioni antropologiche aperte dalla biopolitica, Obama rimane sul vago e/o sul banale (si parla di “ridurre il numero di gravidanze indesiderate”, qualunque cosa voglia dire; di tenere i Kalashnikov “lontano dalle mani dei criminali”, ma le restrizioni sulla vendita di armi sortiscono l’effetto opposto; di lasciare agli omosessuali l’opportunità di “visitare le persone che amano in ospedale e di vivere la loro vita liberi dalla discriminazione”, proposito che nessun essere appena umano metterebbe seriamente in discussione, detto così;), mentre McCain glissa del tutto in materia, forse per accreditare implicitamente il suo conservatorismo anticonformista (o forse per paraculaggine “migliorista”, chi lo sa).
In materia di educazione, Obama parla di “reclutare un esercito di nuovi insegnanti”, manco a dirlo statali, e di “pagare loro salari più elevati e dar loro più supporto”, laddove Old John ritiene invece di dover “dare uno scossone alle burocrazie attraverso la competizione, dare ai genitori il potere della scelta, rimuovere le barriere ai docenti qualificati, attrarre e premiare i buoni insegnanti e aiutare i cattivi insegnanti a trovare un’altra linea di lavoro”. Anche qui interventismo versus mercatismo, quindi.
Insomma, non è difficile arguire perché io, a ragion minarchica veduta, preferisca McCain a Obama. Mi si potrebbe ribattere che un’eventuale presidenza repubblicana dovrebbe vedersela con un Congresso a sicura maggioranza democratica, e che quindi il programma del GOP sarebbe comunque destinato a rimanere in buona parte lettera morta (negli Stati Uniti sono le camere a detenere il potere legislativo, il presidente si “limita” a renderne esecutive – o al limite a bloccarne – le promulgazioni). Solo che il corpo-a-corpo con la maggioranza parlamentare sarebbe all’ordine del giorno per Obama non meno che per McCain: il programma dei democratici conta sulla razionalizzazione della spesa (leggi tagli) e sull’abolizione della fiscalità agevolata per molte categorie di contribuenti. Tutti obiettivi verosimilmente invisi agli stessi congressisti che hanno escogitato le prebende e i loopholes attualmente in vigore. Il futuro presidente dovrà battagliare contro lobby e camarille comunque vada a finire il 4 di Novembre.
Nel gioco di società un po’ frivolo che vede noi europei parteggiare per questo o quel candidato americano, avrebbe dunque poco senso sposare un tatticismo certo consueto alle nostre longitudini, ma per forza di cose estraneo agli assetti istituzionali statunitensi.
Vai a vedere: LibertyFirst, Jim Momo
I due candidati hanno esibito una biografia avvincente ed efficace nel consacrare entrambi alla piena realizzazione di sé: è puro e semplice protestantesimo applicato. Nei contesti riformati come quello americano, infatti, l’uomo terreno è mosso da impulsi negativi, che ne fanno “naturalmente” inclinare l’agire verso il male. Quindi, perduta ogni speranza di giustificazione tramite le opere, rimane solo il successo mondano a testimoniare la predestinazione alla salvezza per il “dopo”. Logico allora che le proprie fortune vadano presentate come credenziali di affidabilità e di moralità, nonché dipinte come fulgide esemplificazioni del sogno americano – la costruzione e il mantenimento di un sistema politico in cui essere liberi di lasciarsi agglutinare dal proprio destino individuale. Obama ha raccontato i sacrifici della madre e della nonna, i suoi studi severi, l’avventura politica al servizio della giustizia sociale; McCain ha rievocato a lungo la cattività in Vietnam e le torture subite laggiù, quando la vicinanza dei commilitoni lo fece recedere dal suo spavaldo egocentrismo giovanile.
Le analogie tra i contendenti, a dispetto del luogo comune che vuole Democratici e Repubblicani gemelli eterozigoti in competizione di facciata, si fermano alla comune radice teologica di cotanta esposizione biografica. Pur non essendo similitudini di poco conto, vista la condivisione di valori portanti che implicano, esse lasciano spazio a una grande varietà di contrapposizioni nel merito.
Sul fronte economico, innanzitutto: mentre McCain propone la classica ricetta liberista (“Io manterrò bassa la pressione fiscale, e laddove possibile la ridurrò. [...] Io mi impegnerò per l’apertura di nuovi mercati per i nostri beni e servizi. [...] Io taglierò la spesa pubblica. [...] I miei tagli alle tasse creeranno nuovi posti di lavoro”), Barack Obama punta su un Big Government assistenzialista di stampo quasi rooseveltiano. Pur ammettendo che “il Governo non può risolvere tutti i nostri problemi”, infatti, manca solo che il candidato democratico assegni a Washington perfino il compito di “spegnere la televisione e far fare i compiti ai bambini”. Per quanto riguarda pressoché tutto il resto, l’intermediazione statale garantisce un valore aggiunto inarrivabile: nel “proteggerci dal male e provvedere a un’educazione dignitosa per ogni bambino; mantenere pulita l’acqua e sicuri i giocattoli; investire in nuove scuole e in nuove strade e in nuova scienza e tecnologia” lo Stato sembra proprio non avere rivali.
Di là dalle molte inesattezze contenute in buona o mala fede nel suo intervento (vedi qui), nel complesso Obama si avvita in un paradosso ideologico meritevole di una piccola riflessione a margine. Dopo essersi preso a modello vivente della “promessa americana” e aver ripercorso tutte le tappe della sua esemplare storia di perseveranza premiata, egli indulge infatti alla demagogia retorica del protezionismo contro il mercato globale e del mutualismo fiscalmente indotto contro la logica del “you’re on your own”. Come se il probabile prossimo presidente USA si reputasse uno dei pochi privilegiati in grado di migliorare autonomamente il proprio destino – come cioè se la tanto sbandierata “promessa” della libertà fosse nella stragrande maggioranza dei casi troppo rischiosa, per poter essere anteposta alla giustizia sociale una volta scesa dal palcoscenico comiziale. Questa ipocrisia fa sorgere il sospetto che “cambiare” l’America significhi in buona sostanza europeizzare la “responsabilità reciproca” a scapito della “responsabilità individuale”.
Passando a volo radente sulle questioni antropologiche aperte dalla biopolitica, Obama rimane sul vago e/o sul banale (si parla di “ridurre il numero di gravidanze indesiderate”, qualunque cosa voglia dire; di tenere i Kalashnikov “lontano dalle mani dei criminali”, ma le restrizioni sulla vendita di armi sortiscono l’effetto opposto; di lasciare agli omosessuali l’opportunità di “visitare le persone che amano in ospedale e di vivere la loro vita liberi dalla discriminazione”, proposito che nessun essere appena umano metterebbe seriamente in discussione, detto così;), mentre McCain glissa del tutto in materia, forse per accreditare implicitamente il suo conservatorismo anticonformista (o forse per paraculaggine “migliorista”, chi lo sa).
In materia di educazione, Obama parla di “reclutare un esercito di nuovi insegnanti”, manco a dirlo statali, e di “pagare loro salari più elevati e dar loro più supporto”, laddove Old John ritiene invece di dover “dare uno scossone alle burocrazie attraverso la competizione, dare ai genitori il potere della scelta, rimuovere le barriere ai docenti qualificati, attrarre e premiare i buoni insegnanti e aiutare i cattivi insegnanti a trovare un’altra linea di lavoro”. Anche qui interventismo versus mercatismo, quindi.
Insomma, non è difficile arguire perché io, a ragion minarchica veduta, preferisca McCain a Obama. Mi si potrebbe ribattere che un’eventuale presidenza repubblicana dovrebbe vedersela con un Congresso a sicura maggioranza democratica, e che quindi il programma del GOP sarebbe comunque destinato a rimanere in buona parte lettera morta (negli Stati Uniti sono le camere a detenere il potere legislativo, il presidente si “limita” a renderne esecutive – o al limite a bloccarne – le promulgazioni). Solo che il corpo-a-corpo con la maggioranza parlamentare sarebbe all’ordine del giorno per Obama non meno che per McCain: il programma dei democratici conta sulla razionalizzazione della spesa (leggi tagli) e sull’abolizione della fiscalità agevolata per molte categorie di contribuenti. Tutti obiettivi verosimilmente invisi agli stessi congressisti che hanno escogitato le prebende e i loopholes attualmente in vigore. Il futuro presidente dovrà battagliare contro lobby e camarille comunque vada a finire il 4 di Novembre.
Nel gioco di società un po’ frivolo che vede noi europei parteggiare per questo o quel candidato americano, avrebbe dunque poco senso sposare un tatticismo certo consueto alle nostre longitudini, ma per forza di cose estraneo agli assetti istituzionali statunitensi.
Vai a vedere: LibertyFirst, Jim Momo
14 commenti:
E' comunque un copione già visto. Prima con Al Gore, poi con Kerry, infine adesso. Tutta la stampa a salutare i nuovi Kennedy (ma perchè poi tanta fretta per i candidati democratici di accreditarsi in questo modo??) nani e ballerine hollywoodiane a parteggiare spudoratamente per la sinistra, con film o spropoqui alla notte degli Oscar (adesso sembra che addiridttura Tera Patrick parteggi per Obama) salvo poi "accorgersi" ex post che la gente non apprezzava, i sondaggi erano finti e i candidati di cartapesta. Sta accadendo di nuovo; e vinceranno ancora i repubblicani, ne sono convinto.
Certo che però sono rimasto molto colpito dell'ultima clamorosa azione di Bush: la nazionalizzazione delle due maggiori corporations di prodotti derivati legati ai mutui edilizi di tutti gli States. Sa un po' da New Deal, non trovi? E dire che, almeno dal punto di vista economico, Bush era sempre stato così liberista...
Senti,
"Per quanto riguarda pressoché tutto il resto, l’intermediazione statale garantisce un valore aggiunto inarrivabile: nel “proteggerci dal male e provvedere a un’educazione dignitosa per ogni bambino; mantenere pulita l’acqua e sicuri i giocattoli; investire in nuove scuole e in nuove strade e in nuova scienza e tecnologia” lo Stato sembra proprio non avere rivali", quelli che Obama menziona in questo elenco sono
tutti (ad eccezione, forse, delle scuole) beni pubblici (public goods), sicché non è chiarissimo perché mai i privati dovrebbero fornirli meglio dello Stato (anzi, a quel che mi risulta, anche gli economisti più "di destra" riconoscono - è la dottrina economica standard, quella che insegnano anche i consiglieri di GWB - che questi beni NON possono essere lasciati ai mercati.
Di fatto, a parte la retorica (che peraltro, come dici giustamente tu, non manca nemmeno in McCain), Obama ha un programma moderato, anche più moderato di quello che nel 1992 portò Clinton alla Casa Bianca. Poi sono il primo ad ammettere che anche McCain non è certo un integralista irragionevole come GWB (anche se ha pur sempre 70 anni e passa, e se gli prende un coccolone con quella vice che si è ritrovato.... brrr).
Per replicare a Francesco che dice che GWB è tanto "liberista": stai scherzando, vero?
Poi, attenzione alle semplificazioni: " (negli Stati Uniti sono le camere a detenere il potere legislativo, il presidente si “limita” a renderne esecutive – o al limite a bloccarne – le promulgazioni)". Il Presidente è il solo e unico titolare del potere esecutivo, che non divide affatto col Congresso, e non ha bisogno delle leggi per governare (in effetti, persino nei Paesi a regime parlamentare che non siano l'Italia, non si governa mica con le leggi). Certo se legislativo e esecutivo non collaborano ma si ostacolano a vicenda può essere un problema, ma una contrapposizione sistematica tra Presidente e Congresso praticamente non c'è mai stata (se non vogliamo rivangare i casi di Andrew Johnson, in pratica a me viene in mente solo l'ultima parte della presidenza Truman).
In realtà, oltre alle scuole, anche i giocattoli, l'acqua, la tecnologia: sono tutti beni che il mercato ha dimostrato di saper gestire piuttosto bene. Non penso possano entrare nel novero dei beni pubblici.
Su Bush: ha tagliato parecchio le tasse, no? E questo è già metà liberismo. Avessimo noi in Italia dei "mezzi liberisti" così!
Francesco,
Obama ha parlato non di "acqua" e di "giocattoli", ma di "acqua pulita" e di "giocattoli sicuri". Questi sono beni pubblici, non beni privati. Beni "pubblici" in senso economico, cioè non-rival e non-excludable, la cui caratteristica è notoriamente che, se lasciati al mercato, tendono ad essere forniti in misura insufficiente. Stesso discorso vale per la conoscenza (sia che si parli di tecnologia che di educazione), che non è un bene "privato".
GWB ha ridotto le tasse ed ha aumentato la spesa pubblica, facendo toccare al deficit federale tetti record. Da quand'è che il deficit spending è diventato una politica economica "liberista"?
OT: mi rimandate l'incirizzo dell'area riservata? Non lo trovo più. GMR
ho messo il link in alto a destra. ti serve solo la password, te la ricordi?
"Notoriamente" tendono ad essere forniti in modo insufficiente? Parli di teorie economiche come se fossero universalmente condivise... L'idea alla quale facciamo riferimento io ed Ismael è un po' diversa. Ti invito a leggere qualche "austriaco", magari Rothbard, per capire a cosa ci riferiamo.
Per quanto riguarda Bush, non mi risulta affatto che abbia aumentato la spesa pubblica. Casomai ha creato il deficit abbassando le tasse senza immediata copertura, alla maniera reaganiana, cosa che mi vede più che d'accordo (la c.d. strategia "dell'affamare la bestia").
Adesso non mi dirai che Reagan non fu liberista! Se gli americani hanno superato gli strascichi del fascismo roosveltiano è solo grazie a lui.
"Se lasciati al mercato tendono ad essere forniti in misura insufficiente" non vuol dire mica che li deve fornire necessariamente lo Stato: significa solo che lo Stato deve intervenire (per es., fissando gli standard, le regole ecc.), perché ci sono esternalità e dove ci sono esternalità... ecc. ecc. Né mi risulta che gli "austriaci" (per es. Hayek) abbiano mai negato tutto questo.
Quanto a Rothbard, che dire. Io parlavo della stragrande maggioranza degli economisti USA, quelli che insegnano alle università importanti, non ai dropouts (sennò, quanto a quello, in UE e in Italia in particolare c'è una pletora di professori di economia post- e para-marxisti; che facciamo, teniamo conto anche di quelli?). Diciamo il professor Mankiw, dai, che è stato il capo dei consiglieri economici di GWB e che sta roba la scrive nel manuale introduttivo per le matricole ad Harvard.
Quanto al deficit, ti risulta male: guarda le statistiche federali http://www.census.gov/compendia/statab/tables/08s0455.pdf e noterai che le spese federali con GWB sono parecchio più alte che ai tempi di Clinton.
Sul fascismo rooseveltiano, faccio finta di non aver letto. Saluti.
Ah, Rothbard non è un economista importante... ok, me lo segno. E mi segno anche che gli austriaci erano per la fissazione di standard minimi per gli operatori di mercato dal lato dell'offerta. Questa non la sapevo...
Quanto al fascismo roosveltiano, la definizione non è mia, è sua (di Roosvelt) che in più di un'occasione espliticò la sua ammirazione per come il duce stava gestendo l'Italia e dichiarò la sua volontà di imitarlo socializzando larghi settori dell'economia (cosa che poi, effettivamente, fece, nonostante la decennale e feroce opposizione della Corte Suprema).
PS: il link non funziona. Ad ogni modo, taglio la testa al toro specificando che non sono un ammiratore di Bush. Dico solo che almeno ha abbassato le tasse. In un panorama desolato di politici statalisti, è meglio di niente.
Anche Marx è un economista importante (e Sraffa, e Veblen, e tanti altri). Ciò non toglie che il dibattito economico odierno segue strade abbastanza diverse. Lo stesso vale per Rothbard. Quante sono le università che ai corsi di economia adottano i suoi libri? Quanti economisti americani seguono le sue idee? (A me R. mi stava pure simpatico, con tutti i suoi tic; ma essere dropout era dropout eccome, e d'altronde si può essere dropout anche immeritatamente)
Ah, ho capito. E siccome anche Churchill in una certa fase si dichiarò ammiratore di Mussolini, allora si può parlare di "fascismo churchilliano", giusto? :-DD
Sorry, il link corretto è:
http://www.census.gov/compendia/statab/tables/08s0455.pdf.
Non è che a me GWB stia simpatico o antipatico (questo è abbastanza irrilevante), solo che al paese mio un politico che aumenta la spesa pubblica tutto si può definire meno che "liberista"...
Ciao, ora mi tocca lavorare sul serio.
Dai non fare il finto tonto. Teniamo la discussione su binari di correttezza. Churchill dichiarò che ammirava alcuni aspetti della personalità del Duce, ma non mise in campo alcuna politica socialista ispirata al fascismo come il New Deal. Un conto è una battuta sul personaggio-duce, un altro è ispirarsi alla sua politica.
Provo a tirare le fila della discussione, ovviamente senza pretese di esaustività (dato che, se le avanzassi a fronte della mole di temi toccati, mancherei di rispetto innanzitutto a voi due!).
Effettivamente non fa notizia che il circuito mediatico penda a Sinistra, né che il mondo del cinema (essendone dopotutto un sottoinsieme) faccia altrettanto. Quello che mi colpisce - o, meglio, che mi ha colpito almeno fino a dieci giorni fa - è che stavolta sembra(va) in lizza un candidato unico. McCain non esiste(va) nemmeno. Posso sbagliare, ma l'integrale esclusiva giornalistica a beneficio di Obama durata fino al termine della convention di Denver non ha precedenti a memoria d'uomo.
Lo stentato "liberismo" di Bush, a onor del vero, va inserito in una cornice ambientale decisamente lontana da quella degli anni '80 thatcherian-reaganiani: nel volgere di appena vent'anni, i mercati internazionali hanno progressivamente incorporato soggettini da nulla come Cina, India, Russia e Brasile, con tutti gli squilibri "macro" e le richieste di protezione politica in seno al già abbiente mondo occidentale che ne sono conseguiti.
Freddie Mac e Fannie Mae sono vestigia del New Deal inserite nel quadro odierno così tracciato: la logica del loro salvataggio può far storcere il naso ai libertari, e con ottime ragioni di principio, ma risponde all'esigenza di tenere in piedi due potenti attrattori di surplus commerciale estero (soprattutto cinese).
Queste considerazioni permettono di affrontare qualcuna delle questioni teorico-politiche sollevate da KK. Il deficit spending non è affatto uno spauracchio per i "mercatisti" - purché la sua evoluzione tenda al riassorbimento del disavanzo, però. Reagan inziò indebitandosi ma concluse in attivo. Come mai con Bush questo non è accaduto? Per ragioni di politica interna come MediCare e MedicAid (difficilmente riconducibili al paradigma dell'"integralismo conservatore", mi pare), di politica estera con la guerra in Afghanistan e in Iraq (la prima per colpire la casamatta talebana, la seconda per entrare a piedi uniti nel ventre molle del Medio Oriente, entrambe per accerchiare l'Iran; poi nel merito si può certamente discutere per ore e ore), ma anche per cause indipendenti dalla volontà politica della presidenza Bush.
Vedi la politica pro-inflazione della Fed che, escludendo i beni immobiliari dal suo paniere di riferimento (qui un'analisi dettagliata dell'anomalia), ha generato l'espansione monetaria responsabile del deprezzamento del dollaro e, a seguire, di gran parte dei "deficit gemelli".
La stessa dissonanza cognitiva all'origine di tante ingenerose bocciature dell'amministrazione Bush, a mio avviso, dà luogo alla rappresentazione tendenziosa di figure come quella di Sarah Palin. La quale non sarà uno stinco di libertaria (è stata scelta appunto per coprire a Destra il maverick McCain), ma non è nemmeno il bieco mostro reazionario dipinto dai mainstream media (su questo vedi Rocca e Stagnaro, quest'ultimo più possibilista del sottoscritto circa le credenziali libertarie della Palin).
Sul "centrismo" di Obama: "centrista" sarebbe appunto una filosofia basata sulla funzione regolatrice dello Stato (per inciso, "di Destra" sarebbe attribuire al potere pubblico solo quella di controllo su dinamiche consuetudinarie temperate dalla giurisprudenza specifica). Ma il candidato democratico ha parlato di pesanti distorsioni allocative, pari a centinaia di migliaia di dollari (sull'istruzione, ad esempio); le premesse dottrinali egalitarie fanno il resto, a mio avviso, nel collocarlo decisamente a Sinistra.
Su Roosevelt e il New Deal, infine, a dispetto dell'apologetica fattane dai libri di testo nostrani continuo a ritenere che abbiano costituito la versione americana dei totalitarismi anni '20-'30. Parzialmente ingentilita dai potenti anticorpi forniti agli USA dai paletti costituzionali più antistatalisti che vi siano al mondo, certo, ma pur sempre una mezza rivoluzione proletaria.
Un'ultima nota, poi chiudo davvero: in America esiste una pubblicistica dedicata ai pericoli e all'incostituzionalità del "culto della presindenza", a riprova di come la separazione di poteri tra esecutivo e legislativo sia un tema politico tutt'altro che banale o scontato, perlomeno per la cerchia libertaria americana.
egli Stati Uniti sono le camere a detenere il potere legislativo, il presidente si “limita” a renderne esecutive – o al limite a bloccarne – le promulgazioni)
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Per quel che ne so io ha anche un forte potere propositivo. Quando c'è un presidente "forte" buona parte dell'attività legislativaè discussa su iniziativa presidenziale. Potrebbe con un congresso ostile, decidere di non bloccare leggi in cambio del passaggio di altre (che premono a lui)
In effetti è esattamente questo che accade, non c'è da nasconderlo. Il sistema USA non è affatto perfetto, così come non è perfetto nessun sistema democratico. Ma almeno loro lo sanno e ne prendono atto. La Costituzione degli States è pervasa da una moltitudine di diffidenze e di cautele nei confronti del governo statale, che si estrinseca nel tentativo di bilanciare fra loro i diversi poteri.
Il risultato non è sempre dei migliori, ma una Costituzione liberale non mira alla perfezione istituzionale. Mira soltanto a neutralizzare i comportamenti più gravi.
Questo, almeno, in teoria. Personalmente, io sono scettico su questo punto. Mi sembra che, invece, il massimo risultato che possa vantare la lex scripta costituzionale sia quello di una (precaria) CONSERVAZIONE del sistema, tra l'altro più nell'apparenza che nei fatti.
C'è da dire comunque che il sistema americano è sempre migliore del nostro. Direi che da noi il Parlamento è esornativo.
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