È raro che la filosofia politica di matrice liberale si mostri pienamente consapevole dell’ineliminabile divario teso tra essenze ed enti. Il più delle volte l’elaborazione teorica “d’area” tende a concepire in termini di perfetta identificazione il rapporto – invero problematico – tra linguaggio e realtà politica, sicché ad esempio si assiste frequentemente alla sbrigativa equiparazione tra “pluralismo etico” e “stato laico”. Come se determinati assetti istituzionali non costituissero l’annosa e perfettibile messa in opera della libertà individuale su un piano metaforico – o non performassero, per dirlo con un gioco di parole, la realizzazione dell’irrealizzabilità connaturata al loro oggetto ideale.
Raimondo Cubeddu, professore di Filosofia Politica presso l'Università di Pisa, con questo suo libro non esita a portare in chiaro con franchezza i principali motivi dello stallo in cui versa l'individualismo contemporaneo, allo scopo di analizzarne le cause e di proporre soluzioni basate sul paradigma degli “incentivi temporali”.
La ratio della linea propositiva così illustrata risiede in una particolare lettura del rapporto tra individui e istituzioni, visto come incontro di domanda e offerta del “tempo equivalente” all'insieme di risorse che ciascun cittadino impiega per soddisfare le sue aspettative.
Agli originali spunti di riflessione suscitati da questa modalità descrittiva – nel saggio toccati da tre angolazioni distinte ma convergenti: teorica, sociologica e storica – si sommano però tutti i gravi limiti della rappresentazione “quantitativista” funzionale ad essa. Nella riduzione a oggetti, cioè a sottoparti misurabili di un insieme materiale convenzionalmente delimitato, dei fenomeni sociali si compie infatti la forzatura di estromettere le categorie dello spirito dal proprio orizzonte gnoseologico. Assunzione pur comprensibilissima sotto il profilo delle necessità scientifiche, ma ciononostante foriera di contraddizioni e incoerenze interne al modello adottato.
Cubeddu, iscrivendosi implicitamente al filone liberale “scettico” cui appartennero Hume, Smith, Hayek e in un certo senso anche Leoni, argomenta che “l’errore dell’individualismo tipico del Classical Liberalism (fino ad Hayek) è stato quello di credere che esistessero degli automatismi di tipo naturalistico (ad esempio i diritti naturali o la prasseologia misesiana), finalizzati alla formazione di un ‘ordine’ o di un’‘armonia degli interessi’, che, se scoperti e soprattutto osservati, avrebbero potuto svolgere la funzione di acceleratori del processo verso il miglior ordine mantenendo e garantendo la libertà individuale” (p. 41). Ma poco oltre sostiene che il “vantaggio del mercato […] non consiste nella sua ‘origine immacolata’ da scambi liberi e pacifici, ma nel fatto che la concorrenza finisce per diminuire i costi e, tra questi, anche quello della coercizione necessaria per il suo funzionamento” (p. 77).
Affermare di sapere in anticipo dove un sistema “finisce” per andare a parare non è, a mio modesto avviso, il modo migliore per sottrarsi al teleologismo – senza tralasciare che rimane complicato definire univocamente il “costo” della costrizione, specie nei regimi che non ne detengono pro-tempore il monopolio.
Tuttavia non sono queste incongruenze (veniali e contestualizzabili) a destare le perplessità maggiori, quanto piuttosto il sottofondo ideologico sul quale fioriscono. Quest'ultimo rimanda in effetti al convincimento sommariamente enucleato laddove si asserisce che “La migliore giustificazione di un sistema di mercato e di un ordine politico liberale di tipo individualistico sembra […] consistere nel fatto che, quantunque non operino una selezione a priori delle aspettative individuali, essi limitano le scelte collettive e quindi la coercizione. In altre parole, il sistema di mercato massimizza quella disponibilità individuale di tempo che, come noto, è tanto la premessa, quanto il risultato della maggiore efficienza di un sistema di scambi liberi (catallassi)” (pp. 27-28).
Nondimeno il principio di non aggressione, indubbio cardine dell'ordinamento politico liberale, seleziona eccome “a priori” le pretese individuali. Anzi, risolversi per il mercato comporta la conformità incondizionata a quella basilare premessa: se un riscontro discutibile come l'efficienza fornisse l'unica ragione a favore della libertà, un ipotetico socialismo “funzionante” diverrebbe preferibile al libero scambio (come per Croce, vedi sotto)?
Cubeddu ritiene di trovare il bandolo della questione sottolineando che, per i liberali, il diritto antecede la religione e l'etica. Vero, ma per quale motivo? La prospettiva tautologicamente a-valutativa in cui si pone l'autore nulla dice al riguardo. Forse sarebbe stato opportuno rilevare che, se dovessimo produrre norme secondo una certa, definitiva e incontrovertibile cognizione del mondo, non avremmo scritto un solo articolo di legge. La necessità di regolare attraverso norma, in altre parole, deriva dal fatto che la dialettica tra opposti non permette mai di determinare un “proprio” in tutto e per tutto rispondente al canone dell'adeguatezza formale. Dall'universalità “umile” di tale proposizione viene l'unica giustificazione autenticamente impreteribile del diritto naturale – o meglio, di ciò a cui si allude con quella espressione (ossia la necessità di un fondamento prepolitico per qualunque ordine costituito).
Esaminando poi i principali momenti del liberalismo italiano, la pur condivisibile critica a Benedetto Croce appare basarsi su ipotesi in netto contrasto con quelle sviluppate sino a quel punto. Del filosofo napoletano si prende di mira il fraintendimento della lezione di Carl Menger, ma soprattutto il positivismo eticizzante racchiuso in prese di posizione come la seguente: “se il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l'ordinamento capitalistico, cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata […] il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quell'abolizione” (p. 208). Ma se il criterio per l'adesione a un'idea politica va individuato nel buon funzionamento delle sue concretizzazioni, l'enunciato di cui sopra – oggigiorno rinverdito nei tratti caratteristici del cosiddetto “giavazzismo” – deve essere sottoscritto.
Il nucleo tematico del volume, sviluppato nella seconda delle tre parti in cui il libro è suddiviso, rimane comunque dedicato alla teoria delle istituzioni politiche. Osservato che sarebbe illusorio domandare al potere pubblico un'equa distribuzione del tempo e delle opportunità, l'autore chiarisce che il compito delle autorità dovrebbe consistere nel facilitare il risparmio di quei beni ai fini soggettivi. Quindi prosegue scrivendo che “all'incremento del bisogno sociale di certezza finisce così per corrispondere una crescente incapacità della politica di produrne nel tempo atteso dagli individui. Ma questa situazione genera, a sua volta, ulteriore incertezza e, paradossalmente, maggiore domanda di politica” (p. 147).
Infine ne deduce che “la pubblica amministrazione, come agli albori dello Stato moderno, potrebbe avere un ruolo fondamentale nel velocizzare i processi di circolazione e di distribuzione della conoscenza che produce direttamente o che genera indirettamente, e nel favorire quei processi virtuosi che, a loro volta, producono innovazione e benessere” (p. 169) e che “Assegnando i diritti di proprietà agli operatori economici più efficienti e salvaguardandone il controllo nei confronti di altri individui e del potere arbitrario degli agenti pubblici, le istituzioni (politiche ed amministrative) possono diventare il motore della crescita economica e della produttività” (p. 171).
Ricapitolando: il problema non è che, interferendo con i processi di mercato, gli apparati statali distorcono l'allocazione di tempo e denaro, ma solo che lo fanno intempestivamente a causa della loro inveterata attenzione per l'uguaglianza sostanziale. Passando a premiare attivamente l'efficienza l'impasse si supera, malgrado la semi-espropriabilità dei beni capitali che tale obiettivo esige.
Non starò ad attardarmi sull'evidente tralignamento di questo liberalismo “incentivista” in un dirigismo soft (o riformismo tecnocratico, se lo si preferisca). Anche perché la realtà quotidiana testimonia di come analoghe soluzioni ibride siano la regola piuttosto che l'eccezione – e una regola nient'affatto sgradita ai più, per giunta. Il dato notevole che emerge dalla lettura di questo come di molti altri contributi specialistici concerne invece l'antinomia tra due metafisiche: una, a vario titolo positivista, sbagliata e/o ingiusta; l'altra, per così dire giusnaturalista “aggiornata”, drammaticamente muta di fronte alle esigenze immediate delle persone.
Se la pubblicistica liberale, anziché lasciare in sospeso la questione suddetta (pur con tutta la dotta onestà che va riconosciuta a opere come la presente), tornasse a lavorare su una coerente formulazione del rapporto tra diritto e verità, la ricerca di nuove architetture istituzionali ne guadagnerebbe senz'altro in concludenza.
Raimondo Cubeddu, professore di Filosofia Politica presso l'Università di Pisa, con questo suo libro non esita a portare in chiaro con franchezza i principali motivi dello stallo in cui versa l'individualismo contemporaneo, allo scopo di analizzarne le cause e di proporre soluzioni basate sul paradigma degli “incentivi temporali”.
La ratio della linea propositiva così illustrata risiede in una particolare lettura del rapporto tra individui e istituzioni, visto come incontro di domanda e offerta del “tempo equivalente” all'insieme di risorse che ciascun cittadino impiega per soddisfare le sue aspettative.
Agli originali spunti di riflessione suscitati da questa modalità descrittiva – nel saggio toccati da tre angolazioni distinte ma convergenti: teorica, sociologica e storica – si sommano però tutti i gravi limiti della rappresentazione “quantitativista” funzionale ad essa. Nella riduzione a oggetti, cioè a sottoparti misurabili di un insieme materiale convenzionalmente delimitato, dei fenomeni sociali si compie infatti la forzatura di estromettere le categorie dello spirito dal proprio orizzonte gnoseologico. Assunzione pur comprensibilissima sotto il profilo delle necessità scientifiche, ma ciononostante foriera di contraddizioni e incoerenze interne al modello adottato.
Cubeddu, iscrivendosi implicitamente al filone liberale “scettico” cui appartennero Hume, Smith, Hayek e in un certo senso anche Leoni, argomenta che “l’errore dell’individualismo tipico del Classical Liberalism (fino ad Hayek) è stato quello di credere che esistessero degli automatismi di tipo naturalistico (ad esempio i diritti naturali o la prasseologia misesiana), finalizzati alla formazione di un ‘ordine’ o di un’‘armonia degli interessi’, che, se scoperti e soprattutto osservati, avrebbero potuto svolgere la funzione di acceleratori del processo verso il miglior ordine mantenendo e garantendo la libertà individuale” (p. 41). Ma poco oltre sostiene che il “vantaggio del mercato […] non consiste nella sua ‘origine immacolata’ da scambi liberi e pacifici, ma nel fatto che la concorrenza finisce per diminuire i costi e, tra questi, anche quello della coercizione necessaria per il suo funzionamento” (p. 77).
Affermare di sapere in anticipo dove un sistema “finisce” per andare a parare non è, a mio modesto avviso, il modo migliore per sottrarsi al teleologismo – senza tralasciare che rimane complicato definire univocamente il “costo” della costrizione, specie nei regimi che non ne detengono pro-tempore il monopolio.
Tuttavia non sono queste incongruenze (veniali e contestualizzabili) a destare le perplessità maggiori, quanto piuttosto il sottofondo ideologico sul quale fioriscono. Quest'ultimo rimanda in effetti al convincimento sommariamente enucleato laddove si asserisce che “La migliore giustificazione di un sistema di mercato e di un ordine politico liberale di tipo individualistico sembra […] consistere nel fatto che, quantunque non operino una selezione a priori delle aspettative individuali, essi limitano le scelte collettive e quindi la coercizione. In altre parole, il sistema di mercato massimizza quella disponibilità individuale di tempo che, come noto, è tanto la premessa, quanto il risultato della maggiore efficienza di un sistema di scambi liberi (catallassi)” (pp. 27-28).
Nondimeno il principio di non aggressione, indubbio cardine dell'ordinamento politico liberale, seleziona eccome “a priori” le pretese individuali. Anzi, risolversi per il mercato comporta la conformità incondizionata a quella basilare premessa: se un riscontro discutibile come l'efficienza fornisse l'unica ragione a favore della libertà, un ipotetico socialismo “funzionante” diverrebbe preferibile al libero scambio (come per Croce, vedi sotto)?
Cubeddu ritiene di trovare il bandolo della questione sottolineando che, per i liberali, il diritto antecede la religione e l'etica. Vero, ma per quale motivo? La prospettiva tautologicamente a-valutativa in cui si pone l'autore nulla dice al riguardo. Forse sarebbe stato opportuno rilevare che, se dovessimo produrre norme secondo una certa, definitiva e incontrovertibile cognizione del mondo, non avremmo scritto un solo articolo di legge. La necessità di regolare attraverso norma, in altre parole, deriva dal fatto che la dialettica tra opposti non permette mai di determinare un “proprio” in tutto e per tutto rispondente al canone dell'adeguatezza formale. Dall'universalità “umile” di tale proposizione viene l'unica giustificazione autenticamente impreteribile del diritto naturale – o meglio, di ciò a cui si allude con quella espressione (ossia la necessità di un fondamento prepolitico per qualunque ordine costituito).
Esaminando poi i principali momenti del liberalismo italiano, la pur condivisibile critica a Benedetto Croce appare basarsi su ipotesi in netto contrasto con quelle sviluppate sino a quel punto. Del filosofo napoletano si prende di mira il fraintendimento della lezione di Carl Menger, ma soprattutto il positivismo eticizzante racchiuso in prese di posizione come la seguente: “se il corso storico delle cose portasse al bivio o di danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, conservando l'ordinamento capitalistico, cioè della proprietà privata, o di garantire e aumentare la produzione, abolendo la proprietà privata […] il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per suo conto quell'abolizione” (p. 208). Ma se il criterio per l'adesione a un'idea politica va individuato nel buon funzionamento delle sue concretizzazioni, l'enunciato di cui sopra – oggigiorno rinverdito nei tratti caratteristici del cosiddetto “giavazzismo” – deve essere sottoscritto.
Il nucleo tematico del volume, sviluppato nella seconda delle tre parti in cui il libro è suddiviso, rimane comunque dedicato alla teoria delle istituzioni politiche. Osservato che sarebbe illusorio domandare al potere pubblico un'equa distribuzione del tempo e delle opportunità, l'autore chiarisce che il compito delle autorità dovrebbe consistere nel facilitare il risparmio di quei beni ai fini soggettivi. Quindi prosegue scrivendo che “all'incremento del bisogno sociale di certezza finisce così per corrispondere una crescente incapacità della politica di produrne nel tempo atteso dagli individui. Ma questa situazione genera, a sua volta, ulteriore incertezza e, paradossalmente, maggiore domanda di politica” (p. 147).
Infine ne deduce che “la pubblica amministrazione, come agli albori dello Stato moderno, potrebbe avere un ruolo fondamentale nel velocizzare i processi di circolazione e di distribuzione della conoscenza che produce direttamente o che genera indirettamente, e nel favorire quei processi virtuosi che, a loro volta, producono innovazione e benessere” (p. 169) e che “Assegnando i diritti di proprietà agli operatori economici più efficienti e salvaguardandone il controllo nei confronti di altri individui e del potere arbitrario degli agenti pubblici, le istituzioni (politiche ed amministrative) possono diventare il motore della crescita economica e della produttività” (p. 171).
Ricapitolando: il problema non è che, interferendo con i processi di mercato, gli apparati statali distorcono l'allocazione di tempo e denaro, ma solo che lo fanno intempestivamente a causa della loro inveterata attenzione per l'uguaglianza sostanziale. Passando a premiare attivamente l'efficienza l'impasse si supera, malgrado la semi-espropriabilità dei beni capitali che tale obiettivo esige.
Non starò ad attardarmi sull'evidente tralignamento di questo liberalismo “incentivista” in un dirigismo soft (o riformismo tecnocratico, se lo si preferisca). Anche perché la realtà quotidiana testimonia di come analoghe soluzioni ibride siano la regola piuttosto che l'eccezione – e una regola nient'affatto sgradita ai più, per giunta. Il dato notevole che emerge dalla lettura di questo come di molti altri contributi specialistici concerne invece l'antinomia tra due metafisiche: una, a vario titolo positivista, sbagliata e/o ingiusta; l'altra, per così dire giusnaturalista “aggiornata”, drammaticamente muta di fronte alle esigenze immediate delle persone.
Se la pubblicistica liberale, anziché lasciare in sospeso la questione suddetta (pur con tutta la dotta onestà che va riconosciuta a opere come la presente), tornasse a lavorare su una coerente formulazione del rapporto tra diritto e verità, la ricerca di nuove architetture istituzionali ne guadagnerebbe senz'altro in concludenza.
4 commenti:
Tema difficile, ma imprescindibile. Il liberalismo è figlio della modernità (in senso filosofico) e paga le conseguenze di un'impostazione gnoseologica scettica o, nel caso del giusnaturalismo, dogmatica.
D'altra parte, io stesso, prima di conoscere il mio professore di filosofia, credevo non esistesse un'alternativa allo scetticismo e/o al dogmatismo. Pensa che il mio idolo era Bobbio (sic).
Ma il problema rimane: la pagina di un liberalismo politico-economico fondato su un apparato teoretico non moderno, non formalizzato e non scettico è ancora tutta da scrivere. Sinceramente, non conosco neanche uno studioso che si metta in questa prospettiva...
Eh sì, il liberalismo infarcito di "incentivi" e "tasse-esternalità" - magari bio e anche eco - è la nuovissima frontiera dello statalismo...
(Mi sembra che ci sia un titolo da correggere, o sbaglio? Mi sa che vi distraete un po' troppo con le amiche di Facebook...)
Ah ah, sì, in effetti le "istruzioni" qui scarseggiavano alquanto! :-D
Anche la diagnosi è impeccabile, temo: proprio una piccola foto di donna su FB mi sta dando da pensare da almeno mezz'ora (che per gli standard internettari è tantissimo).
Francesco: quando avrò ultimato la lettura del Cavalla ne riparleremo per bene. Tra l'altro ho stralciato in extremis tutta una ripresa del paragrafo in cui, ne "La verità dimenticata", si spiega in che senso gli sviluppi giusfilosofici dell'ultimo millennio occidentale si presentino in assoluta continuità - a dispetto di quanto sostenuto da Caubeddu.
Non dirlo a me, ormai gestisco due account facebook, il blog del MA, due email ed MSN. Troppe versioni di me stesso mi stanno mandando in tilt il cervello.
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