Il recente articolo di Elena Cattaneo pubblicato su Nature offre alcuni interessanti spunti di riflessione circa la libertà di ricerca scientifica in Italia e l'assegnazione del diritto alla vita, tema quest'ultimo da me più volte affrontato (per esempio qui, qui e, tra un tema e l'altro, qui). La professoressa non sbaglia allorché, rifacendosi al saggio Staminalia di Armando Massarenti, denuncia l'incongruenza logica esibita da quanti pensano di rendere un buon servizio alla causa “conservativa” speculando sull'antagonismo terapeutico tra le due diverse fonti – embrionale e somatica – di cellule staminali utilizzabili a fini medici. Né le si può dare torto laddove sottolinea l'evidente strabismo di politiche pubbliche come quelle americane, che tagliano i fondi federali alle ricerche distruttive sugli embrioni umani ma nulla dicono in merito all'intrapresa privata delle medesime pratiche.
In effetti ci si può trovare d'accordo con la scienziata sulle suddette questioni specifiche anche partendo da convinzioni filosofiche diametralmente opposte alle sue. Se una certa tecnica curativa – l'estrazione di staminali dalle blastocisti, nel nostro caso – lede un diritto fondamentale nel suo stesso avere luogo, infatti, la sua eventuale pochezza sotto il profilo utilitario passa in secondo piano. Idem dicasi riguardo alla provenienza delle risorse economiche impiegate per remunerare i fattori produttivi e i beni capitali coinvolti nell'affinamento della “tecnica” di cui sopra: declassare un abuso da pubblico a privato non implica alcun progresso morale in relazione alla possibile natura delittuosa della fattispecie presa in considerazione.
Ciò che è universalmente necessario, in altre parole, per definizione non può essere subordinato a variabili diminutive della sua imprescindibilità. E il “non uccidere”, per un sistema penale coerentemente basato sulla libertà individuale, rappresenta il necessitante di una chiusura convenzionale indisponibile alla formulazione “ordinata”. Dunque valido per tutti a meno, appunto, della parimenti necessaria autotutela rispetto a una sua tentata infrazione da parte di terzi (come nel caso della legittima difesa).
Cattaneo avrebbe ragione a stigmatizzare il fatto che “i contrari alla ricerca sulle cellule staminali embrionali in Italia e altrove non si limitano semplicemente a esporre i loro argomenti etici o religiosi e a chiedere a coloro che li condividono di adottare un comportamento coerente” se riferisse le sue obiezioni a categorie giuridiche – magari spiegando chi e perché può rivendicare il diritto alla vita. Invece ritiene sufficiente puntare il dito contro quelle “religioni o filosofie morali [che] considerano gli embrioni umani formati da oltre 100 cellule ontologicamente e simbolicamente equivalenti a un uomo”. Come se negare la plausibilità di un assunto metafisico non significasse comunque rimanere entro la stessa “famiglia concettuale” della proposizione avversata.
Siamo nuovamente alla querelle sulla “persona”, alla quale talora vengono attribuiti i connotati del semplice “essere umano” nella pia illusione di aver molto variato i termini del discorso. Ma in realtà anche le opinioni dell'autrice rispecchiano un'ontologia ben precisa. Basandosi sulla coincidenza di mente e sistema nervoso, e quindi negando dignità giuridica a qualunque individuo umano completamente sprovvisto del complesso biochimico sede del pensiero cosciente, essa vede nell'estrinsecazione delle facoltà cognitive il sorgere ex nihilo di enti destinati in definitiva a ri-annullarsi.
Legittimo, ma indimostrabile. Altrettanto legittimamente sarebbe sostenibile che il “principio trascendente” la mera agglomerazione organica insiste su ciascuno dal concepimento alla morte: è più compatibile con un'impostazione garantista del diritto presumere tale secondo stato di fatto che non pre-giudicare il primo. Il che, come vi fu già modo di spiegare tempo addietro, non significa rendere intangibili i morti cerebrali – soprattutto perché questi ultimi, a differenza degli embrioni, hanno perlomeno goduto della possibilità di dire la loro in materia di ontologia applicata.
Un altro aspetto notevole nella trattazione di Elena Cattaneo, come anticipavo in apertura, riguarda la peculiare considerazione della libertà di ricerca che ne emerge. Può benissimo darsi che la mia sia solo sovrainterpretazione, ma quando la dottoressa evidenzia che “i media […] hanno giocato un ruolo nel trasmettere l'immagine di una comunità scientifica divisa, come se gli scienziati avessero dibattuto di questioni ideologiche alla stessa maniera dei politici e delle personalità religiose” e spende gli ultimi capoversi del pezzo per perorare la causa del peer review, mi pare difficile non sospettarla dello stesso settarismo che, ai tempi del dibattito referendario, contraddistinse molti suoi colleghi.
Dire che gli scienziati, per il solo fatto di essere “esperti in materia”, esprimono valutazioni etiche da un punto di vista più attendibile di quello di ogni altra categoria equivale a operare una scorretta selezione di priorità. Le competenze tecniche non esimono chi le vanta dall'agire anche secondo norme “esogene” al suo campo d'intervento; e la ricerca scientifica, appartenendo di fatto al novero delle “azioni umane”, non può pretendersi avulsa dal pensiero morale (specie nelle sue declinazioni politica e filosofica).
Del resto quale sarebbe la reazione di siciliani e calabresi, per non dire dei contribuenti italiani tutti, se la decisione di costruire o meno il ponte sullo Stretto di Messina fosse interamente demandata al Consiglio Nazionale degli Ingegneri per evitare “dispute di natura ideologica”? Se devono sottostare a pesanti condizionamenti “al contorno” perfino processi in larga parte materiali come quello edilizio, è davvero credibile che possano regolarsi secondo modalità puramente autoreferenziali proprio le biotecnologie?
Le risposte politiche a questi e agli altri interrogativi in materia bioetica non hanno motivo di essere proibizioniste: se sperimentazione deve essere, che si faccia su embrioni ormai inutilizzabili ai fini procreativi per decorsi limiti di tempo – abbastanza in linea con lo spirito della donazione degli organi da parte dei morti cerebrali. Un criterio che tiene assieme la libertà – ragionata – di ricerca e la salvaguardia dell'intima coerenza in seno ai sistemi giuridici liberali, nonché sensibile all'evoluzione della scienza medica. Farla “facile” non è mai un buon modo di tendere alla libertà.
In effetti ci si può trovare d'accordo con la scienziata sulle suddette questioni specifiche anche partendo da convinzioni filosofiche diametralmente opposte alle sue. Se una certa tecnica curativa – l'estrazione di staminali dalle blastocisti, nel nostro caso – lede un diritto fondamentale nel suo stesso avere luogo, infatti, la sua eventuale pochezza sotto il profilo utilitario passa in secondo piano. Idem dicasi riguardo alla provenienza delle risorse economiche impiegate per remunerare i fattori produttivi e i beni capitali coinvolti nell'affinamento della “tecnica” di cui sopra: declassare un abuso da pubblico a privato non implica alcun progresso morale in relazione alla possibile natura delittuosa della fattispecie presa in considerazione.
Ciò che è universalmente necessario, in altre parole, per definizione non può essere subordinato a variabili diminutive della sua imprescindibilità. E il “non uccidere”, per un sistema penale coerentemente basato sulla libertà individuale, rappresenta il necessitante di una chiusura convenzionale indisponibile alla formulazione “ordinata”. Dunque valido per tutti a meno, appunto, della parimenti necessaria autotutela rispetto a una sua tentata infrazione da parte di terzi (come nel caso della legittima difesa).
Cattaneo avrebbe ragione a stigmatizzare il fatto che “i contrari alla ricerca sulle cellule staminali embrionali in Italia e altrove non si limitano semplicemente a esporre i loro argomenti etici o religiosi e a chiedere a coloro che li condividono di adottare un comportamento coerente” se riferisse le sue obiezioni a categorie giuridiche – magari spiegando chi e perché può rivendicare il diritto alla vita. Invece ritiene sufficiente puntare il dito contro quelle “religioni o filosofie morali [che] considerano gli embrioni umani formati da oltre 100 cellule ontologicamente e simbolicamente equivalenti a un uomo”. Come se negare la plausibilità di un assunto metafisico non significasse comunque rimanere entro la stessa “famiglia concettuale” della proposizione avversata.
Siamo nuovamente alla querelle sulla “persona”, alla quale talora vengono attribuiti i connotati del semplice “essere umano” nella pia illusione di aver molto variato i termini del discorso. Ma in realtà anche le opinioni dell'autrice rispecchiano un'ontologia ben precisa. Basandosi sulla coincidenza di mente e sistema nervoso, e quindi negando dignità giuridica a qualunque individuo umano completamente sprovvisto del complesso biochimico sede del pensiero cosciente, essa vede nell'estrinsecazione delle facoltà cognitive il sorgere ex nihilo di enti destinati in definitiva a ri-annullarsi.
Legittimo, ma indimostrabile. Altrettanto legittimamente sarebbe sostenibile che il “principio trascendente” la mera agglomerazione organica insiste su ciascuno dal concepimento alla morte: è più compatibile con un'impostazione garantista del diritto presumere tale secondo stato di fatto che non pre-giudicare il primo. Il che, come vi fu già modo di spiegare tempo addietro, non significa rendere intangibili i morti cerebrali – soprattutto perché questi ultimi, a differenza degli embrioni, hanno perlomeno goduto della possibilità di dire la loro in materia di ontologia applicata.
Un altro aspetto notevole nella trattazione di Elena Cattaneo, come anticipavo in apertura, riguarda la peculiare considerazione della libertà di ricerca che ne emerge. Può benissimo darsi che la mia sia solo sovrainterpretazione, ma quando la dottoressa evidenzia che “i media […] hanno giocato un ruolo nel trasmettere l'immagine di una comunità scientifica divisa, come se gli scienziati avessero dibattuto di questioni ideologiche alla stessa maniera dei politici e delle personalità religiose” e spende gli ultimi capoversi del pezzo per perorare la causa del peer review, mi pare difficile non sospettarla dello stesso settarismo che, ai tempi del dibattito referendario, contraddistinse molti suoi colleghi.
Dire che gli scienziati, per il solo fatto di essere “esperti in materia”, esprimono valutazioni etiche da un punto di vista più attendibile di quello di ogni altra categoria equivale a operare una scorretta selezione di priorità. Le competenze tecniche non esimono chi le vanta dall'agire anche secondo norme “esogene” al suo campo d'intervento; e la ricerca scientifica, appartenendo di fatto al novero delle “azioni umane”, non può pretendersi avulsa dal pensiero morale (specie nelle sue declinazioni politica e filosofica).
Del resto quale sarebbe la reazione di siciliani e calabresi, per non dire dei contribuenti italiani tutti, se la decisione di costruire o meno il ponte sullo Stretto di Messina fosse interamente demandata al Consiglio Nazionale degli Ingegneri per evitare “dispute di natura ideologica”? Se devono sottostare a pesanti condizionamenti “al contorno” perfino processi in larga parte materiali come quello edilizio, è davvero credibile che possano regolarsi secondo modalità puramente autoreferenziali proprio le biotecnologie?
Le risposte politiche a questi e agli altri interrogativi in materia bioetica non hanno motivo di essere proibizioniste: se sperimentazione deve essere, che si faccia su embrioni ormai inutilizzabili ai fini procreativi per decorsi limiti di tempo – abbastanza in linea con lo spirito della donazione degli organi da parte dei morti cerebrali. Un criterio che tiene assieme la libertà – ragionata – di ricerca e la salvaguardia dell'intima coerenza in seno ai sistemi giuridici liberali, nonché sensibile all'evoluzione della scienza medica. Farla “facile” non è mai un buon modo di tendere alla libertà.
7 commenti:
Dopo aver letto l'articolo per intero (cosa impossibile per me stamani, in quanto scientista dedita allo studio del sistema nervoso...)capisco che la volontà è quella di affossare. Per carità. Negativo.Siamo allo stesso livello di coloro che dicono che sui trapianti (e sulle caratteristiche della fine vita') devono decidere i filosofi e non gli scienziati. Non ci siamo.
Cara signora, lei che ha le idee chiare ci potrebbe gentilmente illuminare, senza ricorrere alla filosofia, su un sicuro criterio per decidere, poniamo il caso, quando inizi una vita umana meritevole di protezione giuridica? Oppure, se preferisce, può citarmi un metodo "scientifico" per capire se una persona in stato vegetativo conservi o meno il diritto ad essere mantenuta in vita? Mi raccomando però, non faccia ragionamenti filosofici, usi solo il metodo scientifico. Sono curioso.
Leggo solo adesso i commenti al pezzo (anch'io nella mia veste di "scientista" dedito al suo particolare ambito lavorativo).
A Francesco adesso snoccioleranno la sequela sugli stadi discreti dello sviluppo embrionale, dicendogli che il "metodo scientifico" a cui si riferisce consiste nell'individuare la formazione del sistema nervoso. Sulle problematiche inerenti a questo discorso non mi ripeto.
Per Inyqua, francamente non capisco la radicalità del suo dissenso. Devo aver scritto molto male l'ultimo capoverso del post, se se ne evince che il mio intento è quello di "affossare". Tra l'altro sono fermamente convinto che gli scienziati possano benissimo, all'occorrenza, affrontare questioni filosofiche e, viceversa, i filosofi attingere con profitto al patrimonio di conoscenze che viene loro dalla ricerca scientifica. Forse l'equivoco era questo "non detto" (qui).
Bel post, come sempre.
Molto illuminante il passo sull'equivalenza, nella testa di molti, tra ipotetico contenitore (il sistema nervoso) e contenuto (la mente): ricordo che i Classici erano convinti che la Mente "abitasse" nel cuore, e il linguaggio ne porta ancora ampia traccia.
Concordo con l'analisi; quanto alle conclusioni, concordo che farla facile equivale a un "corner cut" che porta al rischio di schianto.
Quanto a Inyqua, non è mica tenuta a spiegare nulla, lei: sono gli altri che vanno giudicati secondo il loro livello comprensione della Verità.
"Negativo", "non ci siamo": t'è andata ancora bene, puoi ancora recuperare se ti applichi.
A me non solo m'ha bocciato ma come si faceva un tempo m'ha anche espulso da tutte le scuole del Regno (tutti cosi' 'sti etico-materialisti storici) :D
ciao, Abr
Possono esistere dilemmi etici anche nel caso della necessità di manterere in vita una persona in stato vegetativo irreversibile.
Nel mondo reale le risorse sono limitate, dato che i casi di persone che in seguito a incidenti o gravi patologie non sopravvivono per il semplice motivo che non hanno trovato un letto in un reaprto di terapia intensiva sono abbastanza all'ordine del giorno ( e molti anni fa io ho rischiato di essere nel novero ) trovo che occupare posti in reparti di terapia intensiva con persone che ragionavolmente non hanno nessuna possibilità di ritornare ad uno stato cosciente è criminale fanatismo.
Insomma mi trovo decisamente vicino alle posizioni di Ismael, è ovvio che non si può chiedere alla scienza ciò che la scienza in sè non può dare, una valutazione etica, ma questo è specularmente valido anche per chi come ABR si lascia andare ad un concetto puramente strumentalistco della scienza, per cui il legame tra il sistema nervoso e la mente è puramente ipotetico, cadendo coì in una forma di relativismo culturale non meno ambiguo di quello criticato dal Papa.
Volevo aggiungere una cosa a scanso di equivoci, lamia critica all'affermazione di ABR era solo sull'utilizzo del termine "ipotetico contentitore" nei confronti del sistema nervoso, che il sistema nervoso non sia equivalente alla mente è abbastanza pacifico, ma che ne sia il contentitore non può essere definito uun ipotesi, per ipotesi di solito si intende un'idea provvisoria il cui valore dev'essere accertato, la teoria per cui la mente e la coscienza risiedono nel sistema nervoso è ragionevolmente certa.
Se un neurochirirgo incide il cervello di ABR c'è la certezza che questo influirà sulla sua mente e sulla sua personalità, ed in alcuni casi c'è anche la certezza del tipo di danno che ci sarà.
Qussto non significa ridurre l'uomo, nessuna scoperta scientifica o teoria riduce l'importanza dell'uomo, sono solo le loro interpretazioni in malafede da parte di filosofi e politici ( e ovviamente anche quando colui che ne dà interpretazione è lo stesso scienziato ).
Come dici giustamente i paladini dell'approccio "conservativo" dovrebbero sempre evitare di usare nelle loro argomentazioni criteri utilitaristici, mentre troppo spesso cadono nella tentazione di farlo nell'intento di rafforzare il loro punto di vista filosofico-morale: è un'arma a doppio taglio, che il progresso scientifico potrebbe un giorno rivolgere contro di loro. Dovrebbero preoccuparsi di scindere con cura le due facce del problema, invece di contribuire involontariamente ad intorbidire le acque del pubblico dibattito. Avrai notato, per fare un esempio grossolanamente provocatorio (e speriamo che Inyqua non legga sennò mi spella vivo), come quando si parla delle pratiche di alcuni macellai della ricerca medica nazista, sempre ci si premuri di negare ogni validità scientifica ai loro esperimenti, che per lo meno avevano il non trascurabile vantaggio di usare cavie umane: come se quello fosse il punto!!!
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