“Nessuna conoscenza particolare è necessaria,
essendo necessario sapere di ogni cosa
solo ciò che è in tutte”
“Qual è l'autentica funzione della logica,
quella di garantire alcune certezze
o quella di costringere l'uomo
a constatare la loro scarsa rilevanza
rispetto a tutto ciò che non può venire detto
né organizzato nelle stesse forme della logica?”
Almeno per quanto riguarda il sottoscritto, il ripensamento critico non si manifesta mai nei tempi e nei modi di una folgorazione apocalittica e totalizzante. Esso consiste invece nell'arricchimento continuo, incrementale, di un'architettura teoretica consapevolmente precaria, quindi alla costante ricerca di nuovi territori speculativi che, annessi al dominio concettuale pregresso, sappiano estenderne il raggio verso ulteriori e probabilmente ancor più instabili frontiere. È appunto una sensazione di “crescita” più che di “palinodia” a pervadermi, dopo aver sfogliato l'ultima pagina di questo libro. Come vedremo, non a caso l'intera trattazione che mi appresto a riassumere e a commentare verte sulla capacità del Discorso fondativo propriamente detto (e pensato) di “accrescersi da se stesso”.
Francesco Cavalla, ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Padova, introduce all'attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione (è il sottotitolo del volume) partendo dal ristretto concetto di “vero” invalso nell'ambito della moderna controversia giuridica, ossia “il risultato di un'attività dell'uomo coincidente con un rapporto di adeguatezza: o tra parole e stati di cose (verità della rappresentazione); o tra conseguenze e premesse (verità della coerenza)”. Da cui la “supposta funzione empiricamente pacificatrice” del Diritto, così come la “sua presunta capacità di esprimere una qualche volontà (di Dio, della natura, dello stato) creduta inviolabile”. Implicito nel senso di queste parole pulsa un afflato critico tanto verso il dogmatismo quanto verso lo scetticismo, secondo l'autore giaciture equipollenti dello stesso, antichissimo equivoco filosofico.
Donde rinvenire i prodromi dello “scientismo immanentistico contemporaneo”, a vario titolo precipitato epistemologico di una fenomenologia dominata dalla pura contingenza, dalla fattualità bruta, dal programmatico scisma dall'ontologia? Per Cavalla constatare il carattere intrinsecamente aporistico di proposizioni quali “la verità è che non esiste alcuna Verità” oppure “non esistono fatti, solo interpretazioni”, quasi sempre sostenute da mallevadori assai restii ad accettarne fino in fondo le conseguenze pratiche, obbliga a riconoscervi gli sviluppi inintenzionali dei processi di formalizzazione riscoperti e riaffermatisi dalla Scolastica medievale in avanti.
Il “sapere garantito” tomista, giustamente preso a paradigma del discorso analitico applicato alla metafisica, afferma in sostanza che “nessuna causa che sia a sua volta causata spiega autonomamente la propria esistenza; dunque vi è una causa prima incausata”. In una simile prospettiva “il principio di causalità è assunto e non discusso perché è proprio quello che assicura la possibilità di pensare il mondo come un universo ordinato”. Ma interrogarsi sulla verità significa indagare “ciò che non ha opposizioni perché, appunto, è in ogni cosa”: se noi, promossa la logica formale a metro conoscitivo universale, ci rifacciamo integralmente al principio di causalità, stiamo rappresentando i nessi tra i vari elementi di un insieme. Laddove però “in ogni rapporto i termini sono opponibili l’uno all’altro. Si può allora concepire un rapporto tra le cose e l’assoluto? Cosa è opponibile all’assoluto se questo, per definizione, non incontra opposizioni?”. Come si vede, nel linguaggio è possibile addivenire logicamente alla smentita di uno specifico discorso ordinato, ma mai alla dimostrazione analitica di un ente soggettivo antecedente l’esperienza. Questo perché l’analisi serve a garantire non già la verità, bensì la certezza, cioè “la qualifica che spetta ad una realtà (evento o conclusione logica) quando essa, a determinate condizioni, consegua regolarmente ad una determinata posizione (un atto o una premessa concettuale)”.
Sicché divinizzare l’intelletto razionale e la sua relazione elettiva con la trascendenza reca nella confusione di significati di cui sopra una fatale incongruenza congenita, dalla quale origina l’arbitrio di far assumere a Dio la posizione di fenomeno, pur con tutta la sua primazia “scatenante”. Storicamente, infatti, il passo successivo alla posizione scolastico-creazionista fu l’avvento delle dottrine giusnaturaliste laiche, che vedono nella suddetta ragione increata (e dunque) veritativa un ausilio del tutto autosufficiente “quanto alla determinazione di norme e valori universali” e rendono la conoscenza “comunque vera (o falsa) etsi daremus si Deus non esset, per usare l'icastica espressione groziana”. A modernità inoltrata si ridimensionò anche la proiezione oggettivista verso le leggi immutabili del cosmo, giacché all'atto pratico “l'uomo non incontra mai l'intero, ma solo parti; non rinviene oggetti eterni ma, tutt'al più, fenomeni costanti e scopi diffusamente condivisi” risolvendosi infine “ad attuare la propria autonomia non più rispecchiando un supposto ordine dell'intero, ma piegando tutto al proprio volere progettuale”. Una disposizione di idee uscita ancor più rimaneggiata dall'epoca postmoderna, allorquando la tecnoscienza, svanita ogni residua aspettativa di esattezza inconfutabile in campo teorico, ha soppiantato la comprensione sistematica delle regolarità in capo ai “fatti” materiali con alchimie manipolative di vario genere e uso, refrattarie ad astrarre da realtà manco a dirlo “troppo complesse” a tutto vantaggio di una sperimentazione perlopiù a tentoni delle “correlazioni” tra accadimenti. Delle stentoree rivendicazioni razionaliste, alla fine del percorso, “una sola si tien ferma, quella cioè di riguardare al mondo storico come ad un ammasso di materiali da usare spregiudicatamente, caso per caso, per la soluzione di problemi accidentali”. Se non siamo al nichilismo, poco ci manca.
Da notare come il modello interpretativo appena proposto sia conforme non solo alla storia delle scienze giuridiche, ma a quella dell'intero scibile umano occidentale. In questo senso si ha ragione di dire che la secolarizzazione è culturalmente figlia della cristianità medievale: purché non si voglia conferire a tale processo storico il crisma della premeditazione, come vorrebbe certa sbrigativa apologetica.
Cosa è andato perduto, allora, della corretta descrizione modale della Verità? E a quando risale la dimenticanza di un concetto la cui negazione partorisce enunciati intimamente contraddittori, come visto? Cavalla risponde che occorre “tornare all'inizio per interrogarci sull'inizio”, vale a dire “retrocedere non tanto prima della teologia medievale quanto, più radicalmente, fino ad un momento anteriore al tempo in cui […] la parola [fu] tentata dagli oggetti, dalla brama […] di numerarli, scomporli, dominarli”. Si torna quindi alla filosofia dei presocratici, proprio quella che i testi del Liceo ci dipingevano come una congerie di arcaiche misteriosofie animiste.
Dalle parole di Parmenide, rinunciando a uno sterile e fuorviante letteralismo, è possibile ricavare un significato dell'idea di “essere” diverso da quello, caro alla vulgata immanentista, di sostanza indifferenziata e onnicomprensiva. Furono i suoi allievi Zenone e Melisso a tramandarlo come “identità di sé a sé”, inaugurando per primi la radicale spaccatura tra soggetto e oggetto, eppure in questa versione “non si capisce quale potenza, quale principio, in un essere che è privo di differenze, possa originare il mondo del molteplice diversificato. Identificare il Principio con l'essere indifferenziato, dunque, significa identificarlo con una forza che esige la dissoluzione di ogni realtà individuata e che corrisponde, perciò, al nulla”. Né, d'altro canto, sarebbe corretto attribuire all'Eleate una concezione ontologica unicamente copulativa o predicativa (non “A è” univocamente, come nel caso precedente, ma “A è x e y e non z”), perché “il congiungere, se non è congiungere alcunché che c'è già, diventa un concetto senza significato”. L'essere parmenideo, come conferma un'attenta etimologia del verbo medesimo entro la koinè linguistica indoeuropea, è “la realtà capace, in ogni momento, di differenziarsi in se stessa a partire da se stessa”: non sfugga che l'utilizzo di locuzioni simili – e di altre che seguiranno – è prerogativa dell'ermeneutica, non dell'epistemologia. Ci si pone cioè nella sfera del significato profondo, non della conoscenza simbolica. Com'è giocoforza, ove si ragioni in termini estensionali di predicati sprovvisti di strutturazione convenzionale (lo dico per prevenire obiezioni del tipo “quell'espressione è equivalente alla radice cubica di un tubero fritto”).
Ma nemmeno questo essere “globale”, il cui punto di partenza fenomenologico trova la propria rilevanza nella pensabilità come fine esistentivo di ogni ente, coincide con il Principio. Fu appunto la sfida di “concepire l’«oltre l’essere» senza identificarlo con il nulla”, destinazione ultima di un sentiero che “allontana da ogni progetto di dominio, organizzazione e diffusione”, a cadere nell’oblio con l’opposizione tra l’Uno e i molti, tra fenomeno e noumeno, tra quantità e qualità.
Tuttavia l’esigenza di mettere a tema i “rapporti tra logos – pensiero che collega – e Principio”, vista l’analogia strutturale tra l’archè e il dire unificante/trasformante, ebbe il suo campione in un altro presocratico, Eraclito.
Egli, attribuendo al Logos la potenza primaria di trarre “ogni realtà dal nascondimento” e di svelarne “sempre nuovi aspetti”, identificò il Principio con il tessuto connettivo di un “tutto” che “sempre si accresce esplicitando di continuo il proprio senso globale e mutando così, con esso, il senso di ciascuno degli elementi che lo compongono”. Così che questa mutevolezza intrinseca alla continuità del mondo “non solo trasforma ma anche «custodisce» le differenze; facendo sorgere una forma dopo l'altra tutte mette al riparo, tenendole insieme, nella dispersione annullante. (Accade similmente nel discorso: i suoni mutano e si alternano, ma di essi viene custodito non il rumore ma ciò che dura oltre, e cioè il significato delle parole e il senso dell'intero detto)”. L'essere si regge quindi sulla modulazione di senso prodotta da un'alternanza indefinita di comparizioni e nascondimenti, organizzata in radice per essere convogliata entro contesti di significato più o meno determinati. E siccome “sulla realtà nascosta, che soverchia il comparire, non si può effettuare nessuna delle operazioni analitiche che l'intelletto intenta sugli oggetti”, si profila per il Principio il carattere della soggettività come “attività che, obbediente solo a se stessa, si mostra e si ritira per restare imprevedibile e libera”.
Riconoscersi anticipato da un Principio che è Logos, per l'uomo, vuol dire saper cogliere una sorta di tolkieniana “realtà in trasparenza” nel rapporto inesauribilmente creativo tra parole e cose, dato dalla possibilità “di produrre forme nuove al di là di ogni definitiva conoscenza”. Ecco allora che l'esistenza individuale “in quanto anticipata da una libertà infinita, si trova costituita nell'assoluta libertà” e, quindi, che “l’origine di ogni dovere è costituita dalla presenza di una realtà che, da un lato, è ineliminabile ma, dall’altro lato, per operare, esige un atto di accoglimento” in assenza del quale, paradossalmente, si sceglie di non poter davvero scegliere, di liberarsi della libertà stessa. Si giunge infine a comprendere “che il prescrivere certi doveri per una comunità di soggetti non deriva esistenza e valore né da contenuti né da forme predeterminate: quando, peraltro, costruire prescrizioni è un’esperienza necessaria – che è necessario si svolga in forme e contenuti sempre nuovi – perché imposta da una precedente presenza, tra gli uomini, che richiede il coordinamento continuo delle loro libertà”.
Volando così vicino alla stella della Verità è forte il rischio di bruciarsi le ali, o come minimo di rimanere abbagliati. La stessa equivoca similitudine eraclitea del fuoco evoca il sussistere di una forza costante, anteriore al Principio soggettivo, che inghiotte ogni individuazione, di nuovo annullando “l’unione e la custodia delle differenti esistenze”. Questo per ammonire che l’intelligenza del Principio mal si concilia all’impiego di predicazioni dirette, veicolo sintattico privilegiato della contrapposizione tra unità e molteplicità. Solo facendovi riferimento tramite efficaci indicatori di parzialità descrittiva si rende giustizia all’inafferrabile totalità dell’archè. Come si legge nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni: nel Principio era il Logos. “Nel Principio – dunque insieme ad altro (che non si nomina proprio perché è innominabile) – è l’attività che anticipa ogni cosa e le rende tutte dicibili mostrandole, collegandole e custodendole”.
Una consapevolezza dalle profonde ripercussioni giusfilosofiche. Se “fin dall’inizio, è riservata al soggetto una ed una sola decisione: quella di accogliere la propria radicale libertà quale compete ad un’esistenza che deve salvaguardare la segretezza del proprio fondamento”, la controversia relativa al rigetto delittuoso o comunque illegittimo di tale imperativo discende – come detto tante volte – dalla stessa impossibilità di ricavare certezze etiche definitive che genera l’esigenza di regolare tramite norma. Ma non per condurre a visioni “minimaliste”, puramente tecnico-deduttive, di un Diritto che si limiti a “dirimere” questa o quella contesa in base a criteri scollegati e frammentari. Proprio rivendicando alla Giurisprudenza, con la sua attitudine “metalogica” alla retorica e alla dialettica, il ruolo di antidoto principe al dominio del discorso ordinato e, en passant, nientemeno che di interlocutore per eccellenza della Verità, Cavalla percuote più duramente l’egemonia del convenzionalismo e dello strumentalismo giuridico.
Per concludere, siamo davanti all’asserto che la Verità esiste, non che è “solo” necessario assumerne il concetto a fondamento di una sistematizzazione politica conscia della naturale “stoltezza” del linguaggio. Di più: ci viene detto che appunto nella Verità, scorrendo nel Logos umano, il Diritto deve aiutare a comporre le vertenze secondo giustizia. Una lezione che disorienta e provoca tanto il giusnaturalista quanto il giuspositivista, ma che può fornire nuove risorse intellettuali al sempre più sclerotizzato dibattito sul futuro del liberalismo.
Francesco Cavalla, ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Padova, introduce all'attualità dei presocratici dopo la secolarizzazione (è il sottotitolo del volume) partendo dal ristretto concetto di “vero” invalso nell'ambito della moderna controversia giuridica, ossia “il risultato di un'attività dell'uomo coincidente con un rapporto di adeguatezza: o tra parole e stati di cose (verità della rappresentazione); o tra conseguenze e premesse (verità della coerenza)”. Da cui la “supposta funzione empiricamente pacificatrice” del Diritto, così come la “sua presunta capacità di esprimere una qualche volontà (di Dio, della natura, dello stato) creduta inviolabile”. Implicito nel senso di queste parole pulsa un afflato critico tanto verso il dogmatismo quanto verso lo scetticismo, secondo l'autore giaciture equipollenti dello stesso, antichissimo equivoco filosofico.
Donde rinvenire i prodromi dello “scientismo immanentistico contemporaneo”, a vario titolo precipitato epistemologico di una fenomenologia dominata dalla pura contingenza, dalla fattualità bruta, dal programmatico scisma dall'ontologia? Per Cavalla constatare il carattere intrinsecamente aporistico di proposizioni quali “la verità è che non esiste alcuna Verità” oppure “non esistono fatti, solo interpretazioni”, quasi sempre sostenute da mallevadori assai restii ad accettarne fino in fondo le conseguenze pratiche, obbliga a riconoscervi gli sviluppi inintenzionali dei processi di formalizzazione riscoperti e riaffermatisi dalla Scolastica medievale in avanti.
Il “sapere garantito” tomista, giustamente preso a paradigma del discorso analitico applicato alla metafisica, afferma in sostanza che “nessuna causa che sia a sua volta causata spiega autonomamente la propria esistenza; dunque vi è una causa prima incausata”. In una simile prospettiva “il principio di causalità è assunto e non discusso perché è proprio quello che assicura la possibilità di pensare il mondo come un universo ordinato”. Ma interrogarsi sulla verità significa indagare “ciò che non ha opposizioni perché, appunto, è in ogni cosa”: se noi, promossa la logica formale a metro conoscitivo universale, ci rifacciamo integralmente al principio di causalità, stiamo rappresentando i nessi tra i vari elementi di un insieme. Laddove però “in ogni rapporto i termini sono opponibili l’uno all’altro. Si può allora concepire un rapporto tra le cose e l’assoluto? Cosa è opponibile all’assoluto se questo, per definizione, non incontra opposizioni?”. Come si vede, nel linguaggio è possibile addivenire logicamente alla smentita di uno specifico discorso ordinato, ma mai alla dimostrazione analitica di un ente soggettivo antecedente l’esperienza. Questo perché l’analisi serve a garantire non già la verità, bensì la certezza, cioè “la qualifica che spetta ad una realtà (evento o conclusione logica) quando essa, a determinate condizioni, consegua regolarmente ad una determinata posizione (un atto o una premessa concettuale)”.
Sicché divinizzare l’intelletto razionale e la sua relazione elettiva con la trascendenza reca nella confusione di significati di cui sopra una fatale incongruenza congenita, dalla quale origina l’arbitrio di far assumere a Dio la posizione di fenomeno, pur con tutta la sua primazia “scatenante”. Storicamente, infatti, il passo successivo alla posizione scolastico-creazionista fu l’avvento delle dottrine giusnaturaliste laiche, che vedono nella suddetta ragione increata (e dunque) veritativa un ausilio del tutto autosufficiente “quanto alla determinazione di norme e valori universali” e rendono la conoscenza “comunque vera (o falsa) etsi daremus si Deus non esset, per usare l'icastica espressione groziana”. A modernità inoltrata si ridimensionò anche la proiezione oggettivista verso le leggi immutabili del cosmo, giacché all'atto pratico “l'uomo non incontra mai l'intero, ma solo parti; non rinviene oggetti eterni ma, tutt'al più, fenomeni costanti e scopi diffusamente condivisi” risolvendosi infine “ad attuare la propria autonomia non più rispecchiando un supposto ordine dell'intero, ma piegando tutto al proprio volere progettuale”. Una disposizione di idee uscita ancor più rimaneggiata dall'epoca postmoderna, allorquando la tecnoscienza, svanita ogni residua aspettativa di esattezza inconfutabile in campo teorico, ha soppiantato la comprensione sistematica delle regolarità in capo ai “fatti” materiali con alchimie manipolative di vario genere e uso, refrattarie ad astrarre da realtà manco a dirlo “troppo complesse” a tutto vantaggio di una sperimentazione perlopiù a tentoni delle “correlazioni” tra accadimenti. Delle stentoree rivendicazioni razionaliste, alla fine del percorso, “una sola si tien ferma, quella cioè di riguardare al mondo storico come ad un ammasso di materiali da usare spregiudicatamente, caso per caso, per la soluzione di problemi accidentali”. Se non siamo al nichilismo, poco ci manca.
Da notare come il modello interpretativo appena proposto sia conforme non solo alla storia delle scienze giuridiche, ma a quella dell'intero scibile umano occidentale. In questo senso si ha ragione di dire che la secolarizzazione è culturalmente figlia della cristianità medievale: purché non si voglia conferire a tale processo storico il crisma della premeditazione, come vorrebbe certa sbrigativa apologetica.
Cosa è andato perduto, allora, della corretta descrizione modale della Verità? E a quando risale la dimenticanza di un concetto la cui negazione partorisce enunciati intimamente contraddittori, come visto? Cavalla risponde che occorre “tornare all'inizio per interrogarci sull'inizio”, vale a dire “retrocedere non tanto prima della teologia medievale quanto, più radicalmente, fino ad un momento anteriore al tempo in cui […] la parola [fu] tentata dagli oggetti, dalla brama […] di numerarli, scomporli, dominarli”. Si torna quindi alla filosofia dei presocratici, proprio quella che i testi del Liceo ci dipingevano come una congerie di arcaiche misteriosofie animiste.
Dalle parole di Parmenide, rinunciando a uno sterile e fuorviante letteralismo, è possibile ricavare un significato dell'idea di “essere” diverso da quello, caro alla vulgata immanentista, di sostanza indifferenziata e onnicomprensiva. Furono i suoi allievi Zenone e Melisso a tramandarlo come “identità di sé a sé”, inaugurando per primi la radicale spaccatura tra soggetto e oggetto, eppure in questa versione “non si capisce quale potenza, quale principio, in un essere che è privo di differenze, possa originare il mondo del molteplice diversificato. Identificare il Principio con l'essere indifferenziato, dunque, significa identificarlo con una forza che esige la dissoluzione di ogni realtà individuata e che corrisponde, perciò, al nulla”. Né, d'altro canto, sarebbe corretto attribuire all'Eleate una concezione ontologica unicamente copulativa o predicativa (non “A è” univocamente, come nel caso precedente, ma “A è x e y e non z”), perché “il congiungere, se non è congiungere alcunché che c'è già, diventa un concetto senza significato”. L'essere parmenideo, come conferma un'attenta etimologia del verbo medesimo entro la koinè linguistica indoeuropea, è “la realtà capace, in ogni momento, di differenziarsi in se stessa a partire da se stessa”: non sfugga che l'utilizzo di locuzioni simili – e di altre che seguiranno – è prerogativa dell'ermeneutica, non dell'epistemologia. Ci si pone cioè nella sfera del significato profondo, non della conoscenza simbolica. Com'è giocoforza, ove si ragioni in termini estensionali di predicati sprovvisti di strutturazione convenzionale (lo dico per prevenire obiezioni del tipo “quell'espressione è equivalente alla radice cubica di un tubero fritto”).
Ma nemmeno questo essere “globale”, il cui punto di partenza fenomenologico trova la propria rilevanza nella pensabilità come fine esistentivo di ogni ente, coincide con il Principio. Fu appunto la sfida di “concepire l’«oltre l’essere» senza identificarlo con il nulla”, destinazione ultima di un sentiero che “allontana da ogni progetto di dominio, organizzazione e diffusione”, a cadere nell’oblio con l’opposizione tra l’Uno e i molti, tra fenomeno e noumeno, tra quantità e qualità.
Tuttavia l’esigenza di mettere a tema i “rapporti tra logos – pensiero che collega – e Principio”, vista l’analogia strutturale tra l’archè e il dire unificante/trasformante, ebbe il suo campione in un altro presocratico, Eraclito.
Egli, attribuendo al Logos la potenza primaria di trarre “ogni realtà dal nascondimento” e di svelarne “sempre nuovi aspetti”, identificò il Principio con il tessuto connettivo di un “tutto” che “sempre si accresce esplicitando di continuo il proprio senso globale e mutando così, con esso, il senso di ciascuno degli elementi che lo compongono”. Così che questa mutevolezza intrinseca alla continuità del mondo “non solo trasforma ma anche «custodisce» le differenze; facendo sorgere una forma dopo l'altra tutte mette al riparo, tenendole insieme, nella dispersione annullante. (Accade similmente nel discorso: i suoni mutano e si alternano, ma di essi viene custodito non il rumore ma ciò che dura oltre, e cioè il significato delle parole e il senso dell'intero detto)”. L'essere si regge quindi sulla modulazione di senso prodotta da un'alternanza indefinita di comparizioni e nascondimenti, organizzata in radice per essere convogliata entro contesti di significato più o meno determinati. E siccome “sulla realtà nascosta, che soverchia il comparire, non si può effettuare nessuna delle operazioni analitiche che l'intelletto intenta sugli oggetti”, si profila per il Principio il carattere della soggettività come “attività che, obbediente solo a se stessa, si mostra e si ritira per restare imprevedibile e libera”.
Riconoscersi anticipato da un Principio che è Logos, per l'uomo, vuol dire saper cogliere una sorta di tolkieniana “realtà in trasparenza” nel rapporto inesauribilmente creativo tra parole e cose, dato dalla possibilità “di produrre forme nuove al di là di ogni definitiva conoscenza”. Ecco allora che l'esistenza individuale “in quanto anticipata da una libertà infinita, si trova costituita nell'assoluta libertà” e, quindi, che “l’origine di ogni dovere è costituita dalla presenza di una realtà che, da un lato, è ineliminabile ma, dall’altro lato, per operare, esige un atto di accoglimento” in assenza del quale, paradossalmente, si sceglie di non poter davvero scegliere, di liberarsi della libertà stessa. Si giunge infine a comprendere “che il prescrivere certi doveri per una comunità di soggetti non deriva esistenza e valore né da contenuti né da forme predeterminate: quando, peraltro, costruire prescrizioni è un’esperienza necessaria – che è necessario si svolga in forme e contenuti sempre nuovi – perché imposta da una precedente presenza, tra gli uomini, che richiede il coordinamento continuo delle loro libertà”.
Volando così vicino alla stella della Verità è forte il rischio di bruciarsi le ali, o come minimo di rimanere abbagliati. La stessa equivoca similitudine eraclitea del fuoco evoca il sussistere di una forza costante, anteriore al Principio soggettivo, che inghiotte ogni individuazione, di nuovo annullando “l’unione e la custodia delle differenti esistenze”. Questo per ammonire che l’intelligenza del Principio mal si concilia all’impiego di predicazioni dirette, veicolo sintattico privilegiato della contrapposizione tra unità e molteplicità. Solo facendovi riferimento tramite efficaci indicatori di parzialità descrittiva si rende giustizia all’inafferrabile totalità dell’archè. Come si legge nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni: nel Principio era il Logos. “Nel Principio – dunque insieme ad altro (che non si nomina proprio perché è innominabile) – è l’attività che anticipa ogni cosa e le rende tutte dicibili mostrandole, collegandole e custodendole”.
Una consapevolezza dalle profonde ripercussioni giusfilosofiche. Se “fin dall’inizio, è riservata al soggetto una ed una sola decisione: quella di accogliere la propria radicale libertà quale compete ad un’esistenza che deve salvaguardare la segretezza del proprio fondamento”, la controversia relativa al rigetto delittuoso o comunque illegittimo di tale imperativo discende – come detto tante volte – dalla stessa impossibilità di ricavare certezze etiche definitive che genera l’esigenza di regolare tramite norma. Ma non per condurre a visioni “minimaliste”, puramente tecnico-deduttive, di un Diritto che si limiti a “dirimere” questa o quella contesa in base a criteri scollegati e frammentari. Proprio rivendicando alla Giurisprudenza, con la sua attitudine “metalogica” alla retorica e alla dialettica, il ruolo di antidoto principe al dominio del discorso ordinato e, en passant, nientemeno che di interlocutore per eccellenza della Verità, Cavalla percuote più duramente l’egemonia del convenzionalismo e dello strumentalismo giuridico.
Per concludere, siamo davanti all’asserto che la Verità esiste, non che è “solo” necessario assumerne il concetto a fondamento di una sistematizzazione politica conscia della naturale “stoltezza” del linguaggio. Di più: ci viene detto che appunto nella Verità, scorrendo nel Logos umano, il Diritto deve aiutare a comporre le vertenze secondo giustizia. Una lezione che disorienta e provoca tanto il giusnaturalista quanto il giuspositivista, ma che può fornire nuove risorse intellettuali al sempre più sclerotizzato dibattito sul futuro del liberalismo.
5 commenti:
La domanda che mi pongo io, del resto, è questa: cosa rimane della prospettiva liberale, dopo queste riflessioni? Dal punto di vista storico-filosofico, sembra veramente poco. Ma forse, se intendiamo il liberalismo in senso ampio, come tentativo di riflettere problematicamente intorno al problema del potere, credo che le riflessioni di Cavalla possano porsi come una terza via molto interessante nella disputa fra Leoni e Rothbard riguardo all'essenza del Diritto. Una via che unisce le preoccupazioni giusnaturalistiche Rothbardiane con lo scetticismo (in senso lato) Hayekiano e Leoniano, che ci ricorda che in questo ambito è necessario abbandonare ogni pretesa di certezza assoluta, preferendo un sistema politico in cui la Verità ha maggiori possibilità di emergere come frutto della riflessione e dell'interazione di molte persone, nessuna delle quali dovrebbe avere il potere "assoluto" di CREARE il diritto, essendo quest'ultimo un insieme di norme da RICERCARE con la riflessione e la dialettica.
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