l’equivalente di un meccanico che non abbia
mai smontato e rimontato un motore”
A cosa “serve” fare le aste e i cerchietti, risolvere chilometriche espressioni algebriche, scomporre un testo in sintagmi e complementi, imparare a menadito date, battaglie o bacini idrografici, esercitarsi nel solfeggio? Non è forse meglio l’apprendimento diretto, guadagnato “sul campo”, di conoscenze pratiche anziché, come vuole un popolare luogo comune, rimanere “senza niente in mano” dopo aver conseguito titoli di studio teorici?
Giorgio Israel, con questo saggio, prosegue nella ricognizione faccia dopo faccia del poliedro accresciutosi sulla mala cultura scientifica: in Liberarsi dei demoni dall’ideologia scientista promanavano i veleni dell’odio di sé antioccidentale, mentre qui ne emerge il dilagare della diseducazione didattica. È nella sfera dell’ideologismo, infatti, che si inscrivono l’istituzionalizzazione della pedagogia dell’autoapprendimento e della docimologia come “scienza della valutazione oggettiva”. La scuola imperniata sull’insindacabile giudizio del docente e sulla trasmissione di contenuti, della quale noi trentenni siamo stati gli ultimi – o forse i penultimi – testimoni, sembra aver ceduto il passo a un divertimentificio dai marcati tratti distopici. L’istruzione ha in pratica recepito i dettami del progressismo educativo, che attribuiscono all’insegnante l’antiautoritaria qualifica di “facilitatore” preposto a veicolare mere metodologie. Dai contenuti si passa quindi ai contenitori, con la Storia derubricata a cronologia (e dominata dai concetti astratti di “prima” e “dopo”), la Geografia ridotta a topologia (il sopra, il sotto, il davanti, il dietro) e la Matematica-Geometria privata di tutto il suo impianto deduttivo a vantaggio di un induttivismo primitivo, pre-euclideo.
Il docente, nel frattempo, diviene il terminale passivo di un ammortizzatore sociale tra i molti, tanto più che il suo magistero viene ritenuto superfluo perfino allo scopo di esprimere valutazioni: fa alla bisogna l’applicazione di sofisticati modelli numerici. Come per esempio l’utilizzo della curva gaussiana nella determinazione dei valori medi “normali” di profitto. Si sforbiciano i frattili inferiore e superiore dai dati raccolti, si calcola la media e il gioco è fatto. Ma così “il ricorso alla distribuzione normale viene usato in funzione di appiattimento, ovvero per tagliar fuori le punte estreme (somari e primi della classe) come anomalie rispetto alle capacità medie acquisite in una istruzione «uniforme» il che è aberrante perché è proprio in queste situazioni estreme che possono annidarsi i casi più interessanti” (p. 61).
Quello di stare allevando una generazione di conformisti è un rischio che minaccia di diventare realtà, considerata l’importanza che il ricevere un’educazione autorevole riveste nella formazione dello spirito critico, ossia il complemento intellettuale dell’azione che scongiura l’esercizio della semplice re- (o co-) azione.
Questo decadimento generalizzato del sistema scolastico ha profonde radici storiche, oltre che culturali. Esso risale all’autarchia fascista anni ’30, colpevole tra l’altro di aver ostracizzato il fecondo cosmopolitismo interdisciplinare patrocinato da luminari come Vito Volterra e Federigo Enriques, due tra i maggiori protagonisti della vertiginosa rinascita accademica italiana avutasi a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Al loro posto si portarono sugli scudi servi sciocchi e reggicoda, con vergognose punte di ingiustizia all’indomani delle leggi razziali. Molte di queste figure sopravvissero al cambio di regime non già doppiamente punite, ma anzi gratificate per la loro disponibilità a voltare gabbana, in accordo con l’italica usanza di graziare la manovalanza “redenta” in cambio di servile obbedienza ai nuovi potentati politici.
Egemonizzati i centri di produzione della cultura ufficiale, il marxismo poté così applicare indisturbato i suoi stilemi alla filosofia della scienza – se non altro sotto due specie distinte e alternative: una vede nella scienza la fonte della verità oggettiva, l’altra una sovrastruttura “non neutrale” degli interessi borghesi. Crollato il comunismo, “la sinistra ha adottato in toto la prima posizione” (p. 166). Ma questo proprio in funzione di un rinnovamento ideologico complessivo – nella fattispecie in chiave liberal –, contrariamente a quanto sostenuto dall’autore laddove scrive che oggi “la cultura di sinistra appare allo sbando, nella misura in cui, invece di rigenerarsi e cercare nuovi riferimenti e nuove idee, si attacca con disperata nostalgia alle stampelle del passato” (p. 164).
Le conseguenze attuali del percorso storiografico così descritto sono sostanzialmente due. Della prima, il cattivo influsso dello scientismo sul background pedagogico del personale scolastico, si è già detto. La seconda consiste nell’imperversare di discutibili concezioni epistemologiche a tutti i livelli di divulgazione. Ad esempio quella fondata sul divorzio tra i due emisferi del cervello, che culmina nella radicale incomunicabilità tra filosofia e scienza. Si tratta di un retaggio crociano, favorito peraltro dall’estromissione dei già citati Enriques e Volterra dalle officine intellettuali del loro tempo. In Enriques “la via per affermare pienamente il valore conoscitivo della scienza e colmare il fossato tra le due culture consiste nello scendere sul terreno filosofico, affermando un «concetto più largo della filosofia, come forma d’attività implicata in ogni prodotto del pensiero». Il compito primario è quindi quello di elaborare una teoria della conoscenza che mostri come le fasi deduttive del pensiero scientifico non si oppongono alle fasi induttive, ma fanno bensì parte dello stesso processo conoscitivo: se non si comprende questo si offre una visione deformata della scienza” (p. 98). Volterra, dal canto suo, protestava “che «negli uomini di scienza la curiosità è ben grande di guardare fuori e lontano; vivo è il desiderio di frugare nella vetrina degli altri per ben conoscere il valore della propria».
Molta acqua è passata sotto i ponti: Volterra considerava una vergogna (non occuparsi delle altre vetrine) quella che certi idiots savants contemporanei considerano come la virtù che contraddistinguerebbe il vero scienziato” (ibidem). Quanta siderale distanza dai pregiudizi antifilosofici neopositivisti. E soprattutto quale encomiabile passione per una visione unitaria del sapere, davvero controcorrente rispetto alla miope ed esasperata divisione delle “competenze” settoriali in voga oggigiorno. Questi misconosciuti contributi culturali rispecchiano la consapevolezza dell’apporto in termini di intuizione ed eclettismo che lo sguardo del dilettante di buona volontà, se accolto senza stolidi arroccamenti micro-corporativi, può dare agli schemi fissi dell’esperto.
Inutile dire che la strada presa dallo scientismo è tutt’altra. Esso ha in animo di “combattere la filosofia come una forma di riflessione che si limita a porre problemi, spesso intrinsecamente insolubili, senza rispondere mai a nessuna domanda, e poi di recuperare la tendenza più dura (e discutibile) della filosofia occidentale, e cioè la pretesa di costruire non tanto una metafisica (il che è perfettamente legittimo) quanto un’ontologia, ovvero una «scienza dell’essere». La «cultura» e la divulgazione scientifica che ci vengono propinate quotidianamente, più che spiegare scoperte «positive» della scienza, appaiono tutte protese a propugnare un’ontologia materialista. Sembra che parlare delle nuove acquisizioni della scienza sia soltanto un pretesto per «dimostrare» che tutto è materiale, che tutto si riduce a neuroni, geni o particelle elementari” (p. 11).
Le controargomentazioni solitamente opposte a questo genere di discorso si possono riassumere in una domanda: ma se non di “neuroni, geni o particelle elementari”, allora di cos’altro andiamo trattando, di cos’altro è fatto il mondo? Che la risposta possa rimanere un mistero non è nemmeno messo in conto dai fautori del positivismo: per loro esiste solo l’ignoto, vale a dire la convinzione a priori che la “zona oscura” sia ancora da scoprire, giammai irriducibile a conoscenza formale. Il che è tanto legittimo quanto profondamente metafisico.
Massimi sistemi, come si vede. Il meno che possa dire è che siamo di fronte a questioni meritevoli di una comprensione organica e paziente, più che di qualche stranguglione propagandistico. Spiace, a questo proposito, che in definitiva Giorgio Israel propenda per una robusta presenza dello Stato nell’istruzione quale insostituibile presidio contro il decadimento culturale. Mentre a mio modesto avviso è proprio l’aver ingabbiato la scuola nell’angusto recinto dei “beni pubblici” la causa di tutte le storture cui assistiamo adesso. Ogni disegno centralizzato, anche quello con le migliori e più “funzionanti” realizzazioni pratiche sulle prime, contiene in sé i germi del proprio disfacimento. Solo la libertà – compresa quella educativa – consente di spoliticizzare le problematiche morali, di cui scegliere come tramandare il sapere, e con quale selezione di priorità, costituisce un preclaro esempio. Eppure non va dimenticato che l’educazione, assieme alle relazioni internazionali e all’urbanistica, è uno dei campi in cui il libertarismo ha sempre stentato di più a proporre soluzioni credibili: probabilmente a causa dell’utilitarismo insito nella stragrande maggioranza degli argomenti che il libertario medio adopera per trarsi d’impiccio – ossia proprio del principale bersaglio polemico di questo libro.
Giorgio Israel, con questo saggio, prosegue nella ricognizione faccia dopo faccia del poliedro accresciutosi sulla mala cultura scientifica: in Liberarsi dei demoni dall’ideologia scientista promanavano i veleni dell’odio di sé antioccidentale, mentre qui ne emerge il dilagare della diseducazione didattica. È nella sfera dell’ideologismo, infatti, che si inscrivono l’istituzionalizzazione della pedagogia dell’autoapprendimento e della docimologia come “scienza della valutazione oggettiva”. La scuola imperniata sull’insindacabile giudizio del docente e sulla trasmissione di contenuti, della quale noi trentenni siamo stati gli ultimi – o forse i penultimi – testimoni, sembra aver ceduto il passo a un divertimentificio dai marcati tratti distopici. L’istruzione ha in pratica recepito i dettami del progressismo educativo, che attribuiscono all’insegnante l’antiautoritaria qualifica di “facilitatore” preposto a veicolare mere metodologie. Dai contenuti si passa quindi ai contenitori, con la Storia derubricata a cronologia (e dominata dai concetti astratti di “prima” e “dopo”), la Geografia ridotta a topologia (il sopra, il sotto, il davanti, il dietro) e la Matematica-Geometria privata di tutto il suo impianto deduttivo a vantaggio di un induttivismo primitivo, pre-euclideo.
Il docente, nel frattempo, diviene il terminale passivo di un ammortizzatore sociale tra i molti, tanto più che il suo magistero viene ritenuto superfluo perfino allo scopo di esprimere valutazioni: fa alla bisogna l’applicazione di sofisticati modelli numerici. Come per esempio l’utilizzo della curva gaussiana nella determinazione dei valori medi “normali” di profitto. Si sforbiciano i frattili inferiore e superiore dai dati raccolti, si calcola la media e il gioco è fatto. Ma così “il ricorso alla distribuzione normale viene usato in funzione di appiattimento, ovvero per tagliar fuori le punte estreme (somari e primi della classe) come anomalie rispetto alle capacità medie acquisite in una istruzione «uniforme» il che è aberrante perché è proprio in queste situazioni estreme che possono annidarsi i casi più interessanti” (p. 61).
Quello di stare allevando una generazione di conformisti è un rischio che minaccia di diventare realtà, considerata l’importanza che il ricevere un’educazione autorevole riveste nella formazione dello spirito critico, ossia il complemento intellettuale dell’azione che scongiura l’esercizio della semplice re- (o co-) azione.
Questo decadimento generalizzato del sistema scolastico ha profonde radici storiche, oltre che culturali. Esso risale all’autarchia fascista anni ’30, colpevole tra l’altro di aver ostracizzato il fecondo cosmopolitismo interdisciplinare patrocinato da luminari come Vito Volterra e Federigo Enriques, due tra i maggiori protagonisti della vertiginosa rinascita accademica italiana avutasi a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Al loro posto si portarono sugli scudi servi sciocchi e reggicoda, con vergognose punte di ingiustizia all’indomani delle leggi razziali. Molte di queste figure sopravvissero al cambio di regime non già doppiamente punite, ma anzi gratificate per la loro disponibilità a voltare gabbana, in accordo con l’italica usanza di graziare la manovalanza “redenta” in cambio di servile obbedienza ai nuovi potentati politici.
Egemonizzati i centri di produzione della cultura ufficiale, il marxismo poté così applicare indisturbato i suoi stilemi alla filosofia della scienza – se non altro sotto due specie distinte e alternative: una vede nella scienza la fonte della verità oggettiva, l’altra una sovrastruttura “non neutrale” degli interessi borghesi. Crollato il comunismo, “la sinistra ha adottato in toto la prima posizione” (p. 166). Ma questo proprio in funzione di un rinnovamento ideologico complessivo – nella fattispecie in chiave liberal –, contrariamente a quanto sostenuto dall’autore laddove scrive che oggi “la cultura di sinistra appare allo sbando, nella misura in cui, invece di rigenerarsi e cercare nuovi riferimenti e nuove idee, si attacca con disperata nostalgia alle stampelle del passato” (p. 164).
Le conseguenze attuali del percorso storiografico così descritto sono sostanzialmente due. Della prima, il cattivo influsso dello scientismo sul background pedagogico del personale scolastico, si è già detto. La seconda consiste nell’imperversare di discutibili concezioni epistemologiche a tutti i livelli di divulgazione. Ad esempio quella fondata sul divorzio tra i due emisferi del cervello, che culmina nella radicale incomunicabilità tra filosofia e scienza. Si tratta di un retaggio crociano, favorito peraltro dall’estromissione dei già citati Enriques e Volterra dalle officine intellettuali del loro tempo. In Enriques “la via per affermare pienamente il valore conoscitivo della scienza e colmare il fossato tra le due culture consiste nello scendere sul terreno filosofico, affermando un «concetto più largo della filosofia, come forma d’attività implicata in ogni prodotto del pensiero». Il compito primario è quindi quello di elaborare una teoria della conoscenza che mostri come le fasi deduttive del pensiero scientifico non si oppongono alle fasi induttive, ma fanno bensì parte dello stesso processo conoscitivo: se non si comprende questo si offre una visione deformata della scienza” (p. 98). Volterra, dal canto suo, protestava “che «negli uomini di scienza la curiosità è ben grande di guardare fuori e lontano; vivo è il desiderio di frugare nella vetrina degli altri per ben conoscere il valore della propria».
Molta acqua è passata sotto i ponti: Volterra considerava una vergogna (non occuparsi delle altre vetrine) quella che certi idiots savants contemporanei considerano come la virtù che contraddistinguerebbe il vero scienziato” (ibidem). Quanta siderale distanza dai pregiudizi antifilosofici neopositivisti. E soprattutto quale encomiabile passione per una visione unitaria del sapere, davvero controcorrente rispetto alla miope ed esasperata divisione delle “competenze” settoriali in voga oggigiorno. Questi misconosciuti contributi culturali rispecchiano la consapevolezza dell’apporto in termini di intuizione ed eclettismo che lo sguardo del dilettante di buona volontà, se accolto senza stolidi arroccamenti micro-corporativi, può dare agli schemi fissi dell’esperto.
Inutile dire che la strada presa dallo scientismo è tutt’altra. Esso ha in animo di “combattere la filosofia come una forma di riflessione che si limita a porre problemi, spesso intrinsecamente insolubili, senza rispondere mai a nessuna domanda, e poi di recuperare la tendenza più dura (e discutibile) della filosofia occidentale, e cioè la pretesa di costruire non tanto una metafisica (il che è perfettamente legittimo) quanto un’ontologia, ovvero una «scienza dell’essere». La «cultura» e la divulgazione scientifica che ci vengono propinate quotidianamente, più che spiegare scoperte «positive» della scienza, appaiono tutte protese a propugnare un’ontologia materialista. Sembra che parlare delle nuove acquisizioni della scienza sia soltanto un pretesto per «dimostrare» che tutto è materiale, che tutto si riduce a neuroni, geni o particelle elementari” (p. 11).
Le controargomentazioni solitamente opposte a questo genere di discorso si possono riassumere in una domanda: ma se non di “neuroni, geni o particelle elementari”, allora di cos’altro andiamo trattando, di cos’altro è fatto il mondo? Che la risposta possa rimanere un mistero non è nemmeno messo in conto dai fautori del positivismo: per loro esiste solo l’ignoto, vale a dire la convinzione a priori che la “zona oscura” sia ancora da scoprire, giammai irriducibile a conoscenza formale. Il che è tanto legittimo quanto profondamente metafisico.
Massimi sistemi, come si vede. Il meno che possa dire è che siamo di fronte a questioni meritevoli di una comprensione organica e paziente, più che di qualche stranguglione propagandistico. Spiace, a questo proposito, che in definitiva Giorgio Israel propenda per una robusta presenza dello Stato nell’istruzione quale insostituibile presidio contro il decadimento culturale. Mentre a mio modesto avviso è proprio l’aver ingabbiato la scuola nell’angusto recinto dei “beni pubblici” la causa di tutte le storture cui assistiamo adesso. Ogni disegno centralizzato, anche quello con le migliori e più “funzionanti” realizzazioni pratiche sulle prime, contiene in sé i germi del proprio disfacimento. Solo la libertà – compresa quella educativa – consente di spoliticizzare le problematiche morali, di cui scegliere come tramandare il sapere, e con quale selezione di priorità, costituisce un preclaro esempio. Eppure non va dimenticato che l’educazione, assieme alle relazioni internazionali e all’urbanistica, è uno dei campi in cui il libertarismo ha sempre stentato di più a proporre soluzioni credibili: probabilmente a causa dell’utilitarismo insito nella stragrande maggioranza degli argomenti che il libertario medio adopera per trarsi d’impiccio – ossia proprio del principale bersaglio polemico di questo libro.
3 commenti:
"Il compito primario è quindi quello di elaborare una teoria della conoscenza che mostri come le fasi deduttive del pensiero scientifico non si oppongono alle fasi induttive, ma fanno bensì parte dello stesso processo conoscitivo: se non si comprende questo si offre una visione deformata della scienza."
Ben detto: ma non è forse quello che predicava qualche annetto fa un certo Platone? Anche per lui tra "l'idea" o "l'essere immutabile" e le cose del mondo o "il divenire" v'era un rapporto, e le seconde non costituivano un "non essere", in quanto anch'esse partecipavano dell'"idea", pur senza indentificarvisi. In nuce era la stessa concezione unitaria del sapere.
I dualismi d'oggigiorno nel campo filosofico-scientifico sono pari pari ai dualismi nascosti nelle eresie religiose, gli stessi errori che si rinnovellano eternamente sotto nuove forme.
La tua osservazione riprende esattamente i temi toccati dal Cavalla nel penultimo libro che commentavo.
L'antinomianesimo moderno (fenomeno/noumeno, oggetto/soggetto) deriva dall'aver sistematicamente confuso, grossomodo dal Seicento agli inizi del Novecento, il concetto di verità con quello di certezza. C'è molta diffidenza nei confronti della dialettica, insomma. Il tutto, come giustamente aggiungi tu, fertilizzato da secoli di eresie basate sullo stesso assunto, anche se per motivi diversi.
Assieme al mio giurista di riferimento, da reprobo, cerco di rimediare a questa deriva contemporanea! ;-)
"I dualismi d'oggigiorno nel campo filosofico-scientifico sono pari pari ai dualismi nascosti nelle eresie religiose, gli stessi errori che si rinnovellano eternamente sotto nuove forme"
In effetti si può dire che il crinale della modernità siano stati proprio i movimenti ereticali del 13°-16° secolo, che hanno contribuito alla diffusione di concezioni gnostiche in occidente. Ma questi si rifacevano alle prime filosofie neoplatoniche (che con Platone avevano poco a che spartire) le quali per prime hanno teorizzato la netta separazione fra Dio e il mondo, con la conseguenza di ritenere inaccettabile ogni concezione unitaria del sapere.
Per un cattolico questa mentalità dovrebbe essere inaccettabile (mentre è propria, ad esempio, dell'Islam) ma noto con dispiacere che il tarlo della modernità è penetrato in profondità anche nel cattolicesimo. Sento un sacco di fedeli affermare che, in fatto di religione, non si può "ragionare", si può solo credere oppure no. E quando, per provocazione, dico loro "ma allora siamo islamici..." quelli mi rispondono, talvolta, che "In fondo, tutte le religioni sono uguali" (*sigh*).
Insomma, ci stiamo inventando una nuova religione sincretistica che è un po' protestante, un po' cattolica, un po' islamica, un po' scientista e un po' socialista. E noi saremmo la culla della civiltà?
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