lunedì 11 maggio 2009

MA LA LIBERTA' E' DAVVERO UN VALORE?

di Francesco Lorenzetti

Strano, per un libertario, il porsi certe domande. La libertà è un valore? Certamente ci sarà chi si scandalizza già per l’idea che se ne possa discutere. Come si può, infatti, mettere in discussione quello che sembra uno dei pochissimi punti fermi di ogni riflessione filosofica, sociale e politica della storia dell’umanità? In fondo, dicevano di tenere alla liberà personaggi molto diversi fra loro come Marx, Tocqueville, Platone, Locke, De Vitoria, Roosevelt e Peròn. Chi siamo, noi, per attaccare quest’unica bellissima parola che sembra mettere, per una volta, tutti d’accordo?

Il fatto è, però, che le cose non stanno esattamente in questi termini. È vero, i personaggi sopra citati usavano tutti la stessa parola, ma intendevano indubbiamente cose diverse. Marx pensava ad una libertà di classe, intesa come il prevalere degli operai sui capitalisti; Platone vedeva la libertà nella scelta; Locke e De Vitoria calarono la libertà nella sua dimensione più politica, come diritto soggettivo che avrebbe dovuto proteggere gli individui dal potere dello Stato; Roosevelt e gli altri leader politici, al contrario, hanno convinto milioni di persone che proprio il welfare state avrebbe garantito loro la “libertà dal bisogno”. Non c’è nulla da scandalizzarsi, dunque, se affrontiamo l’argomento in questione domandandoci se davvero esista un’idea comune e generale di libertà che possa intendersi come un valore prezioso per l’essere umano.

Per rispondere, cominciamo a dare la prima, e più scontata, definizione di libertà in senso generale, così come intesa dalla stragrande maggioranza delle persone comuni e dei filosofi moderni: la libertà è “assenza di impedimenti”. Sono sicuro che molti di voi si rispecchieranno in questa definizione molto semplice e concisa, condivisa peraltro con il resto del mondo occidentale moderno. Non è un caso, infatti, che nella lingua inglese si usi la stessa parola per dire “senza” e “libero”. Dimostrazione del fatto che, anche da un puto di vista etimologico, esiste una indubbia connotazione in negativo dell’idea di libertà.

Benjamin Constant, nella sua opera più famosa, La liberà degli antichi paragonata a quella dei moderni, definisce proprio come “negativa” (o “libertà da”) la libertà dei moderni, opponendo ad essa l’idea di una “libertà positiva” (o “libertà di”) tipica degli antichi (si riferiva soprattutto alla Grecia classica) che sarebbe oggi non più riproponibile in ambito politico data l’impossibilità “pratica” dei cittadini degli Stati moderni, per la grandezza e la complessità di questi ultimi, di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, ragion per cui si sarebbe privilegiato un concetto moderno di libertà che tutelasse gli individui “dallo Stato” piuttosto che “nello Stato”.

L’interpretazione di Constant ha trovato, e trova tutt’oggi, autorevoli sostenitori, e contiene sicuramente degli elementi di verità. Essa ha però un difetto piuttosto evidente, quello cioè di ridurre l’intera discussione all’ambito politico, come se il problema della libertà si risolvesse unicamente nel rapporto fra il cittadino e lo Stato (o, nell’antichità, fra il cittadino e la polis). Inoltre, il fatto di ricondurre la causa del moderno revirement sull’idea di libertà ad un fatto storico-materialistico come la nascita dei grandi Stati moderni mi pare una forma di materialismo storico ante litteram da parte dell’autorevole studioso francese.

Constant sembra dimenticare che il problema della libertà non è solo di tipo verticale, cioè da riferire al tema del potere, ma si pone anche (anzi soprattutto) in senso orizzontale, ossia nel rapporto fra le persone che compongono un corpo sociale. E, in questa seconda ipotesi, l’idea della libertà negativa cade in un’aporia gravissima, già nota agli antichi ma clamorosamente dimenticata dai moderni. Se, infatti, fosse vero che la libertà è “assenza di impedimenti”, allora dovremmo convenire che la libertà massima di un essere umano si raggiungerebbe con... il suicidio. Non si può negare, infatti, che ogni cosa del mondo sia, in una certa misura, un “impedimento” al nostro agire, e a maggior ragione il limite della nostra fisicità. Ad esempio: i nostri muscoli ci impediscono di camminare per troppo tempo senza fermarci, il freddo ci impedisce di uscire di casa vestendoci come vogliamo, il nostro aspetto fisico potrebbe impedirci di avere la donna che sogniamo, la nostra vista imperfetta potrebbe impedirci di entrare nell’aeronautica, e così via.

Partendo da tali constatazioni, ed utilizzando un’idea di libertà esclusivamente “negativa”, arriveremmo dunque alla sconcertante conclusione che saremmo massimamente “liberi” nel momento in cui non avessimo più nulla (in questo senso, “free”, all’inglese). Non a caso, uno dei miti della modernità è stato Robinson Crusoe, uomo solo e senza legami, che vive su un'isola deserta, e quindi massimamente "libero" ed autosufficiente.

Sulla secondaria questione, invece, dell’origine di questa stramba idea moderna di libertà, io mi oppongo alla spiegazione di Constant ricordando come essa sia piuttosto la conseguenza di quell’idea “quantitativa” della realtà tipica di tutta la modernità anziché di qualche particolare avvenimento storico-politico come la nascita degli Stati moderni. Per trovare una diversa, e meno contraddittoria, definizione di libertà, è però corretto il suggerimento di Constant. Occorre risalire alla Grecia classica.

[… che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e quindi non possiamo liberarci da noi stessi e tantomeno svignarcela, mi membra un pensiero profondo e non facile a penetrare compiutamente; ma, ad ogni modo, almeno questo, o Cebete, mi pare ben detto: che sono gli dèi che hanno cura di noi e che noi siamo in possesso degli dèi]

In queste parole, messe in bocca a Socrate da Platone nel Fedone, c’è il presupposto per capire il perché gli antichi utilizzassero un concetto molto diverso dal nostro riguardo alla libertà umana. E questo presupposto è l’idea che l’uomo viva in uno spazio ristretto (“una specie di carcere”, dice Platone) da cui non può fuggire, entro mura che non può abbattere, che sono imposte alla sua natura dagli dèi. Cioè, l’uomo è limitato in quanto uomo, e i suoi tentativi di “liberarsi” dai vincoli che gli sono imposti sono vani tentativi di evasione dalla sua natura.

Recentemente ho visto un film molto piacevole che rappresentava in modo icastico questa condizione dell’uomo, con una punta d’ironia nei confronti di Nietzsche e di tanti altri filosofi della “liberazione” in senso moderno. Si chiamava Little Miss Sunshine, e parlava di una strampalata famigliola americana in cui il capofamiglia cercava di insegnare ai suoi figli che credendo in loro stessi, impegnandosi al massimo e “non accettando di perdere, mai”, avrebbero ottenuto qualsiasi risultato. Durante il lungo e sfortunatissimo viaggio verso il concorso di Piccola Miss California, dove la loro figlioletta simpatica ma non bellissima avrebbe dovuto gareggiare per il titolo, si palesa però tutta l’assurdità di una tale ideologia. È un film che consiglio di vedere, perché dimostra in modo semplice ed efficace quanto sia vera l’intuizione classica su questo aspetto della natura dell’uomo.

Dunque, la libertà per gli antichi non stava nella (vana) ricerca dell’abbattimento dei limiti che ci sono imposti, ma nella scelta delle nostre azioni. E questo si spiega perchè il vincolo e la possibilità, per i classici, vivono insieme. Pensiamo, ad esempio, all'attività di un artista, poniamo un compositore. Secondo la dottrina della libertà negativa, gli aspetti tecnici e teorici della musica dovrebbero essere considerati dei vincoli alla sua libertà di espressione. Al contrario, secondo la mentalità classica, sono proprio quelle conoscenze a permettere al pianista di esprimersi e al contempo di piacere al resto delle persone, le quali non comprenderebbero nulla dell’opera se questa fosse totalmente sganciata da criteri estetici condivisi. La libertà dell’artista risiederebbe, dunque, nella tecnica, non suo malgrado o in opposizione ad essa.

Ecco perché, nelle riflessioni classiche, il tema della libertà non era così sentito come nella modernità, e si potrebbe addirittura dire che non fosse percepito come un particolare valore da tutelare in assoluto. Piuttosto che di libertà di discuteva, soprattutto nell’ambito politico, preferibilmente di Giustizia, intesa come virtù capace di trovare un difficile equilibrio fra due opposizioni. Ad esempio, si può pensare che un impedimento limiti la mia possibilità di fare una scelta, ma non per questo esso sarebbe, automaticamente, da condannare e da rimuovere. Potrebbe ben darsi, infatti, che questo impedimento sia giusto (ad esempio se io volessi compiere un crimine e qualcuno mi fermasse).

Nessuno, infatti, negherebbe che si possa limitare la libertà di chi si comporta male, e ciò significa, perlomeno, che libertà e giustizia sono due elementi inestricabilmente collegati, e che la seconda è sovraordinata alla prima. S. Agostino, infatti, distingueva giustamente una libertas minor, come generica possibilità di scelta, e una libertas maior, che invece era la scelta di agire orientandosi al bene. Solo quest'ultima, dunque, sarebbe un valore vero e proprio, perchè congiunta ad un criterio di giustizia, mentre la prima, in quanto tale, non sarebbe necessariamente meritevole di tutela.

11 commenti:

Sara Acireale ha detto...

Penso che la LIBERTA' intesa nel senso più profondo del termine sia ancora un grande valore, forse il più importante. Il tuo articolo fa riflettere.E' vero che noi siamo impediti in molte cose:siamo impediti dalle leggi, dalle convenzioni sociali, dalla famiglia ecc. Non possiamo essere "liberi" sempre e comunque a meno di non abitare su un'isola deserta e fare sempre quello che ci pare. Poichè l'uomo è un animale sociale non mi sembra questa una soluzione. Penso che ci siano state (e ci siano ancora oggi) delle persone più libere di altre. Mi riferisco a quelle persone capaci di avere "libertà di pensiero" e di esprimere le proprie opinioni anche andando contro corrente e senza il timore di suscitare il ridicolo. Queste persone sono le più GRANDI nel vero senso della parola perchè non sono asservite al "potere". Mi auguro che tutti noi possiamo arrivare a un grado più alto di libertà: senza libertà non esiste civiltà. Molti uomini e molte donne hanno lottato e sofferto pur di ottenere questo grande valore per se stessi e per gli altri.

Giovanni Boggero ha detto...

Carissimo, la riflessione è interessante. E' innegabile che un certo liberalismo tenda a concepire la libertà come pura assenza di impedimenti, laddove è chiaro come il sole che i vincoli sono consustanziali alla nostra esistenza. Verissimo. E' anche vero, però, che il liberalismo politico così come lo intendono altri (noi ad esempio) si batte per l'assenza di vincoli ARBITRARIAMENTE posti dallo Stato. L'aspetto speculativo e filosofico è senz'altro interessante, ma non dimentichiamo a quali e quanti impedimenti artificiosi ci condanna di giorno in giorno il nostro amato Leviatano.
Un abbraccio

Giovanni Boggero ha detto...

E così si arriva al fatidico punto: quando una scelta è giusta? che cos'è giusto?... :)

Ismael ha detto...

Dopo aver speso tanto tempo nell'inane tentativo di riflettere attorno a una concezione non strumentale, non sottomessa all'utilitaristica rappresentazione del suo simulacro operativo, della libertà, ovviamente non posso non compiacermi di questo bell'articolo.
La modernità è tutta protesa al conseguimento del "poter fare", sempre meno interrogandosi su cosa sia "giusto" fare, rimuovendo l'orizzonte autenticamente morale dell'agire umano a tutto vantaggio di un metro squisitamente politico.
E così, tra eccezioni, esenzioni e casuismi assortiti in sede legislativa, il liberale diviene liberalsocialista.
In margine alla tua disamina, posso solo avanzare un ulteriore interrogativo su cui meditare. Non sarà che, andando appresso alla Giustizia "da Destra" (ossia in quanto conforme ai canoni di una retta ragione più che per l'utilità al "progresso" di quel valore portante), noi si finisca per sfociare in un immanentismo uguale e contrario a quello liberal? Non sarà, cioè, che "dare a ognuno il suo", pur con tutto il piglio conservativo e anti-giacobino che si voglia, senza una forte autocoscienza metafisisca, si traduce in uno spietato atavismo? L'approccio consuetudinario - l'unico compatibile a un'impostazione "classica" del problema in discussione - ha sempre risposto con poca persuasività alla domanda "perché il fatto che un costume sia d'abitudine dovrebbe renderlo ispo facto giusto?", non bisogna dimenticarselo.
Sto riproponendo l'argomento rothbardiano, in buona sostanza.

Francesco ha detto...

Cosa sia giusto e cosa sbagliato è un problema che non si può certo risolvere una volta per tutte. Per questo ho sempre provato un certo fastidio per le teorie giusnaturaliste, le quali, seppure in buona fede, hanno dato una mano al Leviatano più di quanto si possa pensare, affermando l'esistenza di verità incontestabili velleitariamente ottenute attraverso gli strumenti della scienza.

Ma non c'è una "regoletta" che ci possa far orientare in modo certo nel mondo, come pretendeva Rothbard. D'altra parte, se così fosse, sarebbe il sonno della ragione. Una volta trovata, esenterebbe gli uomini dal pensare in modo critico a ciò che fanno.

Io sostengo solo due cose: che, prima di tutto, per disvelare la giustizia la ragione analitica di un solo uomo sia uno strumento spuntato, e che, di conseguenza, in un tale ambito di ricerca occorra la catallassi, e quindi il concorso di più persone le quali non "sommano" semplicemente i loro intelletti, ma diventano un "corpo sociale" capace di raccogliere ed elaborare una mole di esperienze intersoggettive senza la quale non sarebbe possibile alcuna riflessione sensata.

Ma non sono così ingenuo da credere che essa basti a risolvere il problema, nè che la soluzione stia nella consuetudine. Per farla breve, non credo che una soluzione definitivamente certa esista proprio. L'uomo vive nell'incertezza. Questa è la sua condanna e, al tempo stesso, la sua benedizione.

Abby Normal ha detto...

Penso che l'articolo di F. Lorenzetti sia molto utile, innanzitutto perché mette in guardia nei confronti di un generico o variegato valore di libertà. Quanto all'aporia che egli rileva a proposito del concetto di libertà intesa come liberazione da impedimenti, vorrei dire che forse potremmo evitarla parlando di liberazione massima "possibile" da impedimenti. Ma l'articolo in questione è molto più ricco in quanto tira in ballo i concetti di scelta e di giustizia. Non è facile farli interagire in modo convincente.

maxmex ha detto...

Articolo interessantissimo.
Però... La libertà è un valore... politico, sociale, relazionale, intendendo per libertà non l'assenza da restrizioni o la loro diminuizione in termini assoluti, che avrebbe poco o nessun senso, bensì la ricerca della minor presenza possibile di esse per espandere le possibilità di scelta degli individui. Che politicamente ciò significhi cercare il giusto mi pare ovvio ed ogni filosofia politica che voglia astrarsi dall'etica non credo che possa fare passi avanti nella ricerca della verità.

Francesco ha detto...

Per chiarire meglio l'ultimo concetto relativo al rapporto fra libertà e giustizia ho aggiunto un paragrafo alla fine del post, più o meno con le considerazioni fatte nel mio primo commento, che è stato eliminato.

Anonimo ha detto...

It is my first message here, so I would like to say hallo to all of you! It is really amusement to be adjacent to your community!

Anonimo ha detto...

salve sono un regista di Rai educational e sto realizzando un documentario sull'utopia liberale vorrei mettermi in contatto con lorenzetti
qualcuno di voi puo aiutarmi
alberto.polimanti@rai.it

Anonimo ha detto...

bellissima riflessione complimenti ma... sto seriamente pensando che libertà e società non potranno mai convivere serenamente insieme mi sembrano quasi i 2 opposti propio come il bianco e il nero e sopratutto uno dei 2 sente il bisogno di sopraffare l'altro


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