L’inacidito sfogo col quale Luca Sofri si proclama “dalla parte dei bambini” mi dà modo di soffermarmi nuovamente sulle contraffazioni retoriche tipiche della mentalità progressista, o riformista che dir si voglia, anche di quella a più marcata vocazione liberale. Sorvolando sul contorcimento argomentativo che vanifica quelle poche righe di invettiva, laddove la stessa gratuità rimproverata ai “fanatici squilibrati” convinti che il matrimonio sia “un’altra cosa” rispetto alle unioni gay rifulge inconcussa nel lapidario giudizio finale del post, vale invece la pena di notare come la forma mentis del sinistrismo si possa quasi sempre ricondurre a una concezione essenzialista del linguaggio.
Sofri, in altre parole, ritiene di disporre del criterio per stabilire cos’è un “bambino” in termini di assoluta certezza oggettiva, di fatto annoverandosi in un sottoinsieme di quelli che “l’embrione non è già persona”. Così facendo, egli parte dal presupposto di possedere il linguaggio anziché di appartenere ad esso, implicitamente affermando la piena corrispondenza tra significanti e significati. Mentre invece le parole stanno per le cose, ma non sono le cose: hanno cioè il compito di descrivere analogie, non di definire essenze. A maggior ragione se il campo di applicazione del linguaggio ha risvolti prasseologici decisivi come accade nell’attribuzione del “diritto dei diritti”, quello alla vita.
Chiamando “individuo” ogni organismo di specie umana che non può essere suddiviso senza che vada perduta l’unità spontanea e strutturata dei suoi processi vitali, di sicuro non si fornisce una definizione determinante di “uomo”, “persona” o “bambino”. Si descrive, però, un insieme di requisiti sufficiente a riconoscere il diritto alla vita di qualunque “individuo”, perlomeno in un sistema di produzione delle norme coerentemente improntato alla presunzione (categoria giuridica: si veda l’innocenza in sede penale) e non al pregiudizio (categoria metafisica).
In via presuntiva, cioè, embrioni e feti interessano come stadi di un fenomeno, non come approssimazioni progressive di un concetto che già il linguaggio, per la sua natura intimamente metaforica, non può che abbozzare. La legge positiva, del resto, assegna convenzionalmente un diritto al fine di renderne attiva ed efficace la titolarità, non certo per asserire che lo specifico codice adottato per garantire certe prerogative sia perfetto, irrevocabile o incondizionato.
Presumere significa quindi ragionare per difetto, riconoscendo con franchezza quella “lacuna ontologica” del linguaggio che costituisce l’autentica ragion d’essere del diritto (se conoscessimo “per nome” le verità ultime, non avremmo alcun bisogno di darci leggi per decidere del giusto e dello sbagliato). Pregiudicare, al contrario, vuol dire ragionare per eccesso – segnatamente un eccesso retorico, persuasivo nell’accezione che Bruno Leoni attribuiva al termine. Ossia abile nel correlare senso e parola secondo schemi autoreferenziali, all’occorrenza manipolabili per soddisfare le esigenze “etiche” del momento.
Lo scarto semantico tra “feto” e “bambino”, nella fattispecie, vuole fare la differenza sotto il profilo della qualità, oltre che della quantità. Sofri non si prende il disturbo di spiegare in base a quale criterio dovrebbe operarsi questo duplice distinguo, ma il più raffinato è senza dubbio quello che individua nella comparsa dell’attività cerebrale lo iato fondamentale tra persone e non. Ma le funzioni neurologiche fetali, viste come sedi dell’intelletto, descrivono un potenziale cognitivo che si esprime appieno solo alcuni mesi (con la completa formazione dei neuroni, per quanto riguarda il supporto organico della mente) o addirittura anni (col raggiungimento della piena identità personale, ammesso che questa locuzione possa avere un senso definitivo) dopo la nascita. Inoltre, stando a un approccio strettamente “fenomenico” alla questione, la chimica dell’organismo non guadagna maggior qualità intrinseca con l’attivazione del cervello: sempre della mera interazione tra molecole materiali si tratta. Altrimenti, volendo distinguere tra mente e cervello (come io ritengo corretto fare), ci si pone in un campo disciplinare pericolosamente controverso e nient’affatto oggettivo, nel cui ambito hanno cittadinanza teorie secondo cui il cervello sarebbe una sorta di “antenna” per captare un “segnale” che prescinde da essa. Dunque nemmeno l’insorgere delle funzioni neurologiche potrebbe essere l’ipotesi più prudente nel fissare l’ora zero dei diritti individuali.
Il punto, in definitiva, è che qualsiasi definizione di “persona” (o “uomo” o “bambino”) preliminare all’attribuzione dei diritti essenziali deriva da assunti del tutto o in parte pregiudiziali e tesi a scomporre l’unità del processo umano. Negarlo costringe a rimuovere dal proprio orizzonte ideale la natura metaforica del linguaggio e, sovente, a fare un uso spregiudicato del supplemento metaforico dato da paradossi, iperboli e casi ficti. Ma di questo si dirà in futuro.
Sofri, in altre parole, ritiene di disporre del criterio per stabilire cos’è un “bambino” in termini di assoluta certezza oggettiva, di fatto annoverandosi in un sottoinsieme di quelli che “l’embrione non è già persona”. Così facendo, egli parte dal presupposto di possedere il linguaggio anziché di appartenere ad esso, implicitamente affermando la piena corrispondenza tra significanti e significati. Mentre invece le parole stanno per le cose, ma non sono le cose: hanno cioè il compito di descrivere analogie, non di definire essenze. A maggior ragione se il campo di applicazione del linguaggio ha risvolti prasseologici decisivi come accade nell’attribuzione del “diritto dei diritti”, quello alla vita.
Chiamando “individuo” ogni organismo di specie umana che non può essere suddiviso senza che vada perduta l’unità spontanea e strutturata dei suoi processi vitali, di sicuro non si fornisce una definizione determinante di “uomo”, “persona” o “bambino”. Si descrive, però, un insieme di requisiti sufficiente a riconoscere il diritto alla vita di qualunque “individuo”, perlomeno in un sistema di produzione delle norme coerentemente improntato alla presunzione (categoria giuridica: si veda l’innocenza in sede penale) e non al pregiudizio (categoria metafisica).
In via presuntiva, cioè, embrioni e feti interessano come stadi di un fenomeno, non come approssimazioni progressive di un concetto che già il linguaggio, per la sua natura intimamente metaforica, non può che abbozzare. La legge positiva, del resto, assegna convenzionalmente un diritto al fine di renderne attiva ed efficace la titolarità, non certo per asserire che lo specifico codice adottato per garantire certe prerogative sia perfetto, irrevocabile o incondizionato.
Presumere significa quindi ragionare per difetto, riconoscendo con franchezza quella “lacuna ontologica” del linguaggio che costituisce l’autentica ragion d’essere del diritto (se conoscessimo “per nome” le verità ultime, non avremmo alcun bisogno di darci leggi per decidere del giusto e dello sbagliato). Pregiudicare, al contrario, vuol dire ragionare per eccesso – segnatamente un eccesso retorico, persuasivo nell’accezione che Bruno Leoni attribuiva al termine. Ossia abile nel correlare senso e parola secondo schemi autoreferenziali, all’occorrenza manipolabili per soddisfare le esigenze “etiche” del momento.
Lo scarto semantico tra “feto” e “bambino”, nella fattispecie, vuole fare la differenza sotto il profilo della qualità, oltre che della quantità. Sofri non si prende il disturbo di spiegare in base a quale criterio dovrebbe operarsi questo duplice distinguo, ma il più raffinato è senza dubbio quello che individua nella comparsa dell’attività cerebrale lo iato fondamentale tra persone e non. Ma le funzioni neurologiche fetali, viste come sedi dell’intelletto, descrivono un potenziale cognitivo che si esprime appieno solo alcuni mesi (con la completa formazione dei neuroni, per quanto riguarda il supporto organico della mente) o addirittura anni (col raggiungimento della piena identità personale, ammesso che questa locuzione possa avere un senso definitivo) dopo la nascita. Inoltre, stando a un approccio strettamente “fenomenico” alla questione, la chimica dell’organismo non guadagna maggior qualità intrinseca con l’attivazione del cervello: sempre della mera interazione tra molecole materiali si tratta. Altrimenti, volendo distinguere tra mente e cervello (come io ritengo corretto fare), ci si pone in un campo disciplinare pericolosamente controverso e nient’affatto oggettivo, nel cui ambito hanno cittadinanza teorie secondo cui il cervello sarebbe una sorta di “antenna” per captare un “segnale” che prescinde da essa. Dunque nemmeno l’insorgere delle funzioni neurologiche potrebbe essere l’ipotesi più prudente nel fissare l’ora zero dei diritti individuali.
Il punto, in definitiva, è che qualsiasi definizione di “persona” (o “uomo” o “bambino”) preliminare all’attribuzione dei diritti essenziali deriva da assunti del tutto o in parte pregiudiziali e tesi a scomporre l’unità del processo umano. Negarlo costringe a rimuovere dal proprio orizzonte ideale la natura metaforica del linguaggio e, sovente, a fare un uso spregiudicato del supplemento metaforico dato da paradossi, iperboli e casi ficti. Ma di questo si dirà in futuro.
6 commenti:
Hai anticipato alcune idee che sto sviluppando per un prossimo post su Aristotele. Il tuo post è in tutto e per tutto antimoderno, direi quasi "classico", tranne che su un punto: dici che l'uomo è tale finchè (e in quanto) è "individuo", ma questo mi pare un criterio tipicamente moderno, e perciò un po' stridente col resto del tuo discorso.
L'uomo non è tale perchè "atomo", ma perchè in esso sta un Principio che trascende la somma delle sue componenti e che le rende un intero.
"Individuo" è solo un concetto che ci dice che qualcosa è altro rispetto a noi, ma non ci dà nessuna informazione eticamente ed ontologicamente rilevante per decidere la natura di quel qualcosa.
Al contrario, quando dici "uomo" ti riferisci ad un Principio che, è vero, forse "svanisce" quando viene meno l'unità funzionale dell'organismo, ma non di meno è all'origine di quell'unità e la caratterizza sul piano sostanziale.
La cosa non è di scarsa importanza, perchè secondo me ciò che dà diritto alla vita ad un embrione non è il fatto che esso sia "individuo", ma il fatto che esso contenga già in sè il Principio della sua generazione (potenzialità attiva, secondo Aristotele).
Dottor Ismael, mi ritrovo a mio agio in ciò che lei ha saviamente esposto con mirabile efficacia.
Yuri, la sua composta adulazione rischia di farmi prendere ansa alla vanità intellettuale. Me ne scampi; mi segnali, che so, un errore di battitura tanto per compensare! :-)
Bene bene, pregusto già il tuo scritto aristotelico, Francesco. La modernità, in effetti, potrebbe rientrare in uno schema di lettura "antinomico", nel quale l'essenza della "cosa in sé" ha vagolato tra il rifiuto e/o la negazione totale (nichilismo) e la presa d'atto della "dotta ignoranza" che non può non riguardarla (dando spesso origine a forme ontologiche di relativismo).
Dell'approccio classico, io conservo più l'interesse per il problema che non le soluzioni, tant'è vero che ho volutamente definito l'individuo per difetto. Concentrandomi sulle sue sole cause efficienti e materiali, non ambisco certo a dire cosa sia l'uomo, mi contraddirei. Infatti, cercando di dettagliare cause formali e finali cadrei nello stesso inghippo retorico dal quale rifuggo, e la cui consapevolezza è poi il tratto distintivo delle filosofie moderne. Non voglio affermare con sicurezza che l'individuo sia già potenza attiva, mi accontento di negare "solo" che si possa mai dimostrare oltre ogni ragionevole l'assenza di quel carattere.
Una soluzione di compromesso, diciamo.
...quando una donna è in cinta..diciamo che aspetta un bambino...non che ha un bambino chiuso dentro.
Per individuare un bambino la gente comune non si rifà nè ad Aristotele nè all'Atomo ma ad elementi molti più universali.
Sofri sarà acido ma ha i piedi per terra sull'argomento.
Io trovo condivisibile la difesa della VITA in ogni stadio della sua evoluzione. Più o meno quel che persegue anche la Chiesa in Italia senza sentire il bisogno di scambiare un embrione per bambino.
Zagazig
ANTINORI! ANTINORI! ANTINORI!
Da padre di una bambina voluta ancor prima del suo concepimento ho percepito una netta differenza tra la bimba dentro il pancione e la bimba appena nata, ma per me sempre di bimba si e trattato, ancor prima, ribadisco, del suo concepimento. Mi viene umilmente da pensare che, forse, è proprio il desiderio di averla e la condivisione di questo desiderio con sua madre che ha fatto di questo ovulo fecondato una bambina ancor prima anche della fecondazione. La questione è di certo delicatissima e grave per eccellenza. La soluzione politica, a mio parere, deve essere semplicemente pragmatica, ovvero ogni scelta politica che si occupi di aborto deve essere valutata per le sue conseguenze. Da queste considerazioni giungo ad affermare che, ritenendo l'aborto un abominio , non voglio mai più tornare alla tragedia degli aborti clandestini. Liberalismo e pragmatismo dovrebbero incontrarsi, no? Poi, magari, diffondiamo sempre più informazione sessuale, uso degli anticoncezionali ed anche contrastiamo il predominio mediatico di certi modelli "culturali" sessuali che ci rendono sempre meno persone pensanti e sempre più bestie asservite agli interessi dei potenti.
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